La vicenda del grande rientro degli italo – venezuelani scacciati dal loro paese di emigrazione dalla crisi che lo ha sprofondato nella miseria – di cui ho scritto in un post precedente – mi ha fatto scoprire un libro che varrebbe la pena di ripubblicare perché racconta una storia pressoché sconosciuta, e che mai ho visto citata nei numerosi articoli che pure la stampa italiana ha dedicato al problema. Me l’ha fatta scoprire un altro libro, “Italiani mata burros” di Michele Castelli che ne fa la trama di uno dei suoi racconti. È la storia di sette siciliani, emigrati in Venezuela negli anni cinquanta, catturati dalla polizia del dittatore Marco Perez Jimenez, i quali tenuti segregati e seviziati nelle carceri del regime per quasi tre anni (dal 13 aprile 1955, giorno dell’ “arresto” del primo dei sette, al 23 gennaio del 1958), vennero eliminati, proprio nelle stesse ore in cui un pronunciamento di militari “liberali” incendiava il Venezuela e costringeva lo screditato e corrotto tiranno alla fuga.
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Dalle Ande agli Appennini, il grande ritorno dei venezuelani
Se non è ancora una diaspora, poco ci manca. Da qualche anno e ogni giorno di più è in atto il silenzioso ritorno in Italia dei nostri emigrati in Venezuela, dei loro figli e nipoti: intere famiglie che fuggono dalla grande crisi di questo grande e contraddittorio paese sudamericano, sospeso tra i proclami rivoluzionari di Maduro e del suo partito con la promessa di una società più giusta e una realtà che, nel racconto dei nostri connazionali che sono fuggiti, è un incubo di miseria e corruzione. Un delirio che minuto dopo minuto distrugge ogni speranza, martellando nella mente il chiodo di un solo pensiero fisso conficcatosi in un’ossessione, quella di riavvolgere il nastro delle proprie biografie personali o familiari e di tornare all’origine, al punto di partenza, con la certezza che, comunque vada, si approderà in un posto migliore di quello che si lascia. Il caso è giunto sulle pagine dei giornali e nelle cronache dei notiziari, spesso deformato dalla lente dell’ormai decennale polemica sullo “chavismo” e la sua eredità di oggi: se sia stato un bene diventato un male o se invece da noi sia arrivato da sempre il riflesso di un’allucinazione che ciascuno ha colorato con i suoi sogni, custoditi, come troppo spesso avviene, sulla pelle degli altri e a dispetto della verità, delle dure evidenze della vita da svegli. Non di questo, però, voglio parlare, ma di quanto ho visto e sentito in un piccolo angolo del Molise, la cui laboriosità sociale continua a sorprendermi ancora dopo anni di viaggi, incontri e racconti. Continua a leggere