Ritratti, viste e sentite

Scherzi totiani

Gianni Toti, conosciuto come fondatore della poetronica, è stato, lungo le sue moltepici vite, giornalista e direttore di “Lavoro”, settimanale della Cgil voluto da Giuseppe Di Vittorio, negli anni cinquanta del secolo scorso, Fu una sfida all’insegna dell’innovazione, della creatività, della ricerca di un modello popolare vincente nella stampa italiana, capace di coniugare impegno e tempo libero. Intervistai Gianni Toti trentasette anni fa, oggi – come presidente dell’Associazione Gottifredo – custodisco il suo Fondo librario e archivistico.

Si possono anche chiamare scherzi del destino, ma in realtà a determinarli, questi scherzi, c’è sempre una ragione più o meno nascosta, una traiettoria della vita di ciascuno che non può che andare in quel modo, secondo una necessità che a un certo punto del tragitto si rivela inevitabile.

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memoria, Ritratti

I perciatellini di Pietro

“Pietro e Alatri”, un ricordo sulle amicizie e sulle riviste che PietroTripodo “frequentò”  nella cittadina ciociara, dove per alcuni anni operò una piccola casa editrice, l’Hetea, che pubblicò un testo raro di Giuseppe Gioachino Belli, una rivista dell’avanguardia artistica con un numero speciale dedicato a Pizzuto, zeppo di inediti, e un libro di saggi su Tommaso Landolfi. Adesso Pietro viene ricordato con una masterclass dell’Università di Cassino e dell’Associazione Gottifredo.

Pietro cominciò a frequentare Alatri, dove si sarebbe costruito una fitta rete di amici ed estimatori, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando incontrò a Roma, al collegio del Nazareno, del cui istituto scolastico annesso furono ambedue istitutori, Raffaele Manica che me lo presentò. Non ricordo se lo incontrai per la prima volta ad Alatri o a Roma – in una trattoria nella quale discutemmo dello spessore più adeguato delle fettuccine e della nobiltà, per Pietro insuperabile, dei perciatellini del rinomato pastificio abruzzese di Fara San Martino. Ricordo questo particolare perché, riflettendo sulla nostra amicizia, quando ne erano potuti restare solo il ricordo e il vuoto, sono arrivato alla conclusione che l’oggetto delle conversazioni per Pietro non fosse mai innocente, casuale; e che lui piuttosto si ingegnava, al primo contatto, a  fermarsi su un argomento innocuo, che non facesse correre il rischio di discussioni troppo accese e da cui, anche il perdente della controversia dialettica, potesse ritirarsi senza danno e il rancore che avrebbero pregiudicato i rapporti successivi.

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memoria, Ritratti

“Quel Gino Conti sono io”

«Gino Conti», «Stanko»: ancora oggi Alfredo Bonelli ricor­re frequentemente agli pseudonimi, o meglio ai nomi di batta­glia, della sua giovinezza per presentarsi all’interlocutore. Può sembrare civetteria, o la fissazione di un vecchio che vede inci­se nel cristallo di due nomi le due esperienze vitali della sua esistenza, quelle a cui affida il compito di interpretarne  il senso e trasmetterne il valore fondamentale: «Gino Conti», e cioè la Resistenza, l’organizzazione clandestina del Comitato di Liberazione Nazionale e del Partito Comunista in Ciociaria, «Stanko», e cioè la militanza internazionalista in Jugoslavia, l’opposizione antitoista, la formazione a Fiume, in nome del­l’ortodossia, di una cellula comunista schierata contro il mare­sciallo partigiano, scomunicato nel 1948-49 da Stalin e dal Cominform. In Ciociaria dall’ottobre del 1943 al marzo del 1944, in Jugoslavia dal novembre del 1948 alla fine del luglio del 1950, infatti, Bonelli cerca di apporre una sorta di timbro personale sulla sua vicenda di militante comunista e di «rivo­luzionario di professione» scegliendo di andare incontro da solo, invece che confuso nell’anonima e disciplinata falange del suo partito, alla Storia. Compie, si potrebbe insinuare, per due volte un atto di superbia: cede alla tentazione di un peccato che, tanto nella mitologia cristiana come nell’ideolo­gia del comunismo terzinternazionalista, ha il significato di un’individualistica, e perciò insopportabile, affermazione di identità. Continua a leggere

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Il mio amico Gianni Astrei

Oggi, 27 aprile alle 18,30, una messa a Santa Maria Maggiore ricorderà, con qualche giorno di anticipo, il decimo anniversario della morte del mio amico Gianni Astrei avvenuta nel pomeriggio del Primo maggio del 2009. Alcuni mesi dopo quello stupido incidente di montagna che lo portò via, il figlio Angelo mi chiese di scrivere un ricordo del padre per un libro che avrebbe dovuto raccogliere le testimonianze degli amici e di chi lo aveva frequentato e conosciuto più da vicino. La pubblicazione alla fine non si riuscì a fare, ma io inviai lo stesso la mia parte ad Angelo che l’ha depositata e conservata, come me, in una cartella del suo computer. È il mio inedito racconto di Gianni e della nostra amicizia che, d’accordo con Angelo, pubblico adesso sul mio blog per conservare una memoria, per esprimere un omaggio che non voglio – non vogliamo – resti privato. Continua a leggere

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Musicisti sull’oceano: “Samotì” e i suoi compagni

Alla fine, la storia è sparita dalle pagine dei giornali ma nei giorni immediatamente successivi all’affondamento della nave da crociera squarciatasi sugli scogli del Giglio, a quanto pare per una sbruffonata del comandante, ha trovato un suo piccolo posto nelle cronache la notizia del giovane batterista del complesso ingaggiato per intrattenere i passeggeri nelle lunghe serate di bordo che, arrivato alla scialuppa che l’avrebbe messo in salvo, ne è ridisceso per lasciare il posto a un bambino impaurito, inabissandosi così nella lista delle persone disperse nel naufragio sul cui destino non resta ormai sospesa neppure la più flebile speranza. Giuseppe Girolamo era diplomato in conservatorio e, seguendo lo stesso percorso di tanti come lui, aveva trovato uno dei suoi primi lavori da professionista della musica imbarcandosi con l’equipaggio della Concordia di Costa crociere, diventandone lui stesso – come vogliono la prassi e il diritto marittimo – un componente a tutti gli effetti, sottoposto alla stessa disciplina e ai medesimi obblighi. Continua a leggere

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Alla ricerca di Troppa. Puntata seconda. Il Compianto di Terni

Un Compianto di Girolamo Troppa (foto del titolo) è esposto nel museo Caos di Terni, una struttura culturale ricavata da un vecchio opificio appena fuori dal centro storico della città. Siamo alla  seconda tappa del nostro avvicinamento alla Mostra della Pietà di Alatri (che abbiamo chiamato “Il Cristo svelato”, non solo per lucrare, con un innocuo gioco di parole, sul nome del celebre “Cristo velato” della cappella napoletana di Sansevero), ripercorrendo per quanto possibile le tracce di un pittore che fu prolifico nella produzione, disuguale (tanto da ingenerare qualche confusione) negli esiti artistici, dalla biografia accidentata e che, comunque, oggi sta attirando l’attenzione di diversi studiosi che annunciano studi e monografie sulla sua opera.

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Conversazione sui film, la necessità dei sottotitoli, il dramma di un appassionato che sta diventando sordo

 

I protagonisti di questa conversazione sono il mio amico Elio Vernucci, medico a Piombino, molisano di nascita ma alatrense di elezione, e il suo amico Fabio Canessa, un critico cinematografico finissimo che grazie ad Elio ho conosciuto anch’io. Il loro scambio di lettere (via mail, ma sono scritte con l’eleganza di chi sa adoperare la penna stilografica) è l’occasione per raccontare, intrecciandole, alcune belle storie. Le ho ricevute in copia e, senza chiedere il  permesso agli autori (e tuttavia sperando di non irritarli), le ospito nel mio blog, aggiungendo a quello di Elio anche il mio appello per i sottotitoli nei film, perché pur non essendo sordo solidarizzo con chi lo è, e poi – se si tratta di film stranieri –  credo che essi (e tutti i film) vadano visti e sentiti nella lingua originale.

da Elio Vernucci a Fabio Canessa, l’8 gennaio 2018

Caro Fabio,

tra la fine degli anni sessanta e i settanta (i settanta tutti, a dir la verità) ho fatto scorpacciate di films  (o filmi). A Pisa per mantenerci all’università io e mio fratello Franco eravamo Istitutori Collaboratori al Qualquonia (ci chiamavano però Studenti Maestri) e tutte le domeniche accompagnavamo i ragazzini al cinema dove potevamo assistere agli spettacoli gratis et amore Dei, era il Lanteri in via S. Michele degli scalzi che raggiungevamo rigorosamente a piedi,  inquadrando i ragazzetti in fila per due divertendoci a farli camminare con estrema lentezza sulle strisce zebrate per far innervosire gli automobilisti e dare un po’ di stura al nostro (di ragazzi e Maestri) sadismo e invidia e cattiveria non tanto celata.

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La necessità del corniciaio

Un corniciaio convinto che “un quadro senza cornice è come l’anima senza il corpo”, un gruppo di amici e di artisti che fondano un’associazione per realizzare il loro sogno di cambiare – con la cultura e l’arte – Alatri, una cittadina della nostra grande provincia italiana. Una storia “minore”, raccontata per i lettori de “L’Inchiesta” e riproposta, oggi, per quelli del nostro blog. 

Nell’ultima domenica di questo mese di agosto, a conclusione dell’estemporanea di pittura che, sempre in questo periodo, ormai da qualche anno viene organizzata ad Alatri da un’associazione di artisti che si chiama (e non solo per risultato dell’acronimo) “Acta”, verrà assegnato un premio speciale dedicato alla memoria di mio padre. Toccherà al pittore o alla pittrice che, a giudizio di una giuria di esperti, avrà dipinto un quadro che sarà riuscito a catturare un aspetto inedito, uno scorcio inusuale della città. La motivazione del premio rendiconterà in breve il perché.

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DANIELE PARIS, IL MAESTRO

Il 16 agosto 1989 moriva, in un letto dell’ospedale di Alatri, Daniele Paris, fondatore del Conservatorio di Frosinone. E’ stato un musicista e intellettuale di primo piano del Novecento italiano; la sua dimensione internazionale non gli impedì di donare alla sua terra tanta musica e il Conservatorio, che tanti musicisti ha formato. Quello che segue è il capitolo che gli ho dedicato, raccontandolo, nel mio “Conservatorio. Ieri, Oggi, Domani”. (Ediesse, 2012)

 

Tutti i docenti in Conservatorio vengono chiamati maestri. L’appellativo di maestro l’ho sempre considerato impegnativo e in genere lo uso rivolgendomi a persone per le quali ricorrere a un semplice titolo accademico – dottore, professore, avvocato – mi sembra insufficiente o improprio. La prima volta che ne ho capito l’eccezionalità è stato il giorno in cui mio padre, nominandolo in questo modo e con un’enfasi a malapena trattenuta, mi presentò – ero poco più che bambino – un pittore della mia città, che faceva il barbiere di mestiere, ma che era guardato con ammirazione perché sapeva scrivere e dipingere, ed era stato tra i fondatori della sezione socialista, alle cui riunioni, che si tenevano di domenica mattina, non riusciva mai a partecipare per via del lavoro nella barberia che allora, per il riposo settimanale, era chiusa il lunedì. Alle assemblee dei suoi compagni di partito inviava perciò delle lunghe lettere, che l’emissario o qualche amico aveva l’incarico di leggere, per spiegare le sue idee e le sue proposte, dando dimostrazione di quella serena e cordiale retorica che lo avrebbero fatto ancora ricordare con stima e riconoscenza tanti anni dopo. Era un artigiano e un maestro, un titolo che si era conquistato grazie alla sua capacità di andare al di là del perimetro della sua professione e che intendeva segnalare l’eccellenza che aveva raggiunto senza passare per la consacrazione di un titolo accademico.

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Il “modesto” Marianetti

 

Il “modesto” Marianetti, così Stefania Craxi aveva definito Dino quando nelle drammatiche vicende che stavano portando alla morte il Partito Socialista a qualcuno era venuto in mente di proporlo, come scelta disperata, alla guida di quel che restava del più antico e glorioso dei partiti italiani. Lo ricorda lo stesso Marianetti nella sua autobiografia (“Io c’ero”) che è stata presentata ieri alla Biblioteca del Senato, poche ore prima che ci giungesse, preannunciata però dalla sua assenza in un’occasione alla quale non sarebbe mai mancato per sua volontà, la notizia della morte. L’episodio e il passo del libro di memorie che lo racconta sono stati citati da Giuseppe De Rita, che ha commentato – rivelando di essere pure lui ciociaro, di Pontecorvo, come Marianetti che era nato a Tripoli nel 1940 ma era cresciuto a Morolo e Colleferro – che c’è una nobiltà nell’essere modesti, autodidatti, consapevoli di essere parte di una comunità che ti affida grandi responsabilità e che perciò deve essere rispettata rinunciando alla facile tentazione di fare la corsa da soli.

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