Ritratti, viste e sentite

Scherzi totiani

Gianni Toti, conosciuto come fondatore della poetronica, è stato, lungo le sue moltepici vite, giornalista e direttore di “Lavoro”, settimanale della Cgil voluto da Giuseppe Di Vittorio, negli anni cinquanta del secolo scorso, Fu una sfida all’insegna dell’innovazione, della creatività, della ricerca di un modello popolare vincente nella stampa italiana, capace di coniugare impegno e tempo libero. Intervistai Gianni Toti trentasette anni fa, oggi – come presidente dell’Associazione Gottifredo – custodisco il suo Fondo librario e archivistico.

Si possono anche chiamare scherzi del destino, ma in realtà a determinarli, questi scherzi, c’è sempre una ragione più o meno nascosta, una traiettoria della vita di ciascuno che non può che andare in quel modo, secondo una necessità che a un certo punto del tragitto si rivela inevitabile.

Scusate se la faccio un po’ troppo seria, ma come spiegare, a me stesso prima di ogni altro, che trentasette anni dopo averlo conosciuto e intervistato sono diventato come presidente di un’associazione culturale, e in qualche modo anche personalmente, il depositario del lascito archivistico e librario di Gianni Toti, il più rivoluzionario, innovativo, irriverente giornalista che il sindacato italiano abbia mai avuto: tanto rivoluzionario, innovativo, irriverente che nella stampa della Cgil, un’organizzazione che per sua natura, e pure per legittima prudenza, non ha mai visto di buon occhio le fughe in avanti (dovunque esse dirigessero), ci rimase per meno di un decennio. Per librarsi, subito dopo, nella sperimentazione poetica, nella ricerca di linguaggi inesplorati, di ibridazioni di vocabolari e scritture ancora da trovare e scrivere, sentite e immaginate nell’ansimare dei tempi nuovi, all’inizio di quegli anni sessanta che avrebbero dato inizio al cambiamento del nostro paese, ponendo fine al dopoguerra e portandolo dalla ricostruzione alla costruzione del futuro.

Sull’archivio digitale di Rassegna Sindacale (ora sul sito di Collettiva) ho ritrovato l’intervista che feci a Gianni Toti, nel 1985 per chiedergli di ricordare i suoi anni di direttore di “Lavoro”, allora come oggi il più citato esperimento di giornale sindacale cui si riconosceva la capacità di avere, non illusoriamente, coltivato l’ambizione di competere con i grandi magazine della stampa periodica italiana degli anni cinquanta, un attimo prima che fosse compromessa dalla concorrenza televisiva.

Toti mi ricevette nella sua abitazione romana del Villaggio dei giornalisti, sulla Cassia, in una sala studio colma di libri, di immagini – tele, disegni, fogli con appunti appiccicati fin sopra il soffitto – e mi raccontò quello che ho scritto trentasette anni fa e riletto in questi giorni, quando ancora una volta mi sono trovato a passare in rassegna, con lo sguardo e le mani, i volumi rilegati di Lavoro che fanno parte della biblioteca che la sua vedova, la seconda moglie, Pia Abelli Toti, ha donato all’Associazione Gottifredo (nel nome si intende Gottifredo Raynaldo, cardinale diacono in San Giorgio al Velabro – chissà che parrebbe della cosa a Gianni Toti) e che ora si trovano ben sistemati su uno scaffale della “biblioteca totiana” che stiamo terminando di allestire, ad Alatri, in un locale che ne sarà sede permanente e ospiterà, a completamento non casuale, soggetti e prodotti della creatività artistica più disinibita e visionaria, nel più puro spirito totiano.

L’intervista, in tutto questo, è il fatto che conta di meno, anche se i ragionamenti e i ricordi di Toti che essa riflette sono interessanti, non solo dal punto di vista storico.

Ciò che mi è sembrato più urgente segnalare è appunto questo scherzo del destino, quella ragione nascosta che a un certo punto si illumina per ciascuno di noi, dando luce alla strada fatta e a quel tratto che resta ancora da fare.

(10 giugno 2022)

 

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