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Il pozzo delle nostre paure

Ho sempre avuto paura dei laghi. Nella camera da pranzo della minuscola casa di mia nonna, che nel ricordo è una specie di labirinto in miniatura cresciuto lungo un corridoio che mi sembrava lunghissimo e tortuoso e invece – a guardarlo da adulto – era di pochi metri, c’era affissa la riproduzione di una barca isolata in uno specchio d’acqua agitato, tratteggiato con quelle che nell’originale dovevano essere pennellate di un azzurro fosco, cupo, che io identificavo con il lago di Canterno. A questo lago, e al suo nome che mi suonava minaccioso, associavo la storia, che mi era stata narrata, di un ragazzo del mio paese  che vi era annegato qualche tempo prima che io nascessi. Per anni ho evitato accuratamente di partecipare alle gite sul lago per Ferragosto o, più frequentemente, per il giorno di Pasquetta che la comitiva dei miei coetanei organizzava con spensieratezza, nemmeno sospettando che solo l’ipotesi della scampagnata mi avrebbe provocato inquietudine e malumore. Come se recandomi in quel luogo, che pure a tanti evocava il mistero degli incontri amorosi dell’adolescenza oppure gli impegnativi convegni di coppie più adulte, delle cui esercitazioni erotiche sentivo favoleggiare sotto voce, andassi a provocare lo spirito mai placato del giovane che era stato aspirato da un vorticoso mulinello, affiorato all’improvviso dalla profondità limacciosa dell’acqua, preda di una forza violenta che gli aveva rubato tutte le promesse della vita.

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I giorni di Libertà

Una storia politica, accaduta localmente ma che contiene i medesimi tratti di quella più ampia che negli stessi anni sta accadendo nell’intero paese. Siamo nel novembre del 1943, un gruppo di giovanissimi cattolici, sotto l’ala protettrice del Vescovo di Alatri, stampa con il ciclostile dell’Azione Cattolica, il primo numero di “Libertà”, il foglio che darà voce alla sparuta ma combattiva resistenza che si organizza in questa parte della provincia di Frosinone.

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Il mio amico Gianni Astrei

Oggi, 27 aprile alle 18,30, una messa a Santa Maria Maggiore ricorderà, con qualche giorno di anticipo, il decimo anniversario della morte del mio amico Gianni Astrei avvenuta nel pomeriggio del Primo maggio del 2009. Alcuni mesi dopo quello stupido incidente di montagna che lo portò via, il figlio Angelo mi chiese di scrivere un ricordo del padre per un libro che avrebbe dovuto raccogliere le testimonianze degli amici e di chi lo aveva frequentato e conosciuto più da vicino. La pubblicazione alla fine non si riuscì a fare, ma io inviai lo stesso la mia parte ad Angelo che l’ha depositata e conservata, come me, in una cartella del suo computer. È il mio inedito racconto di Gianni e della nostra amicizia che, d’accordo con Angelo, pubblico adesso sul mio blog per conservare una memoria, per esprimere un omaggio che non voglio – non vogliamo – resti privato. Continua a leggere

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Senza categoria, viste e sentite

Se i poveri sono colpevoli

Sessanta anni fa un’indagine spiegava che la povertà del meridione nasceva dal “familismo amorale”. Un modo per dire che i poveri non sono esenti da colpe. In occasione dei quaranta anni della ricerca, realizzata da E.C. Banfield, da cui nacque un libro celebre “Le basi morali di una società arretrata” andai a visitare il paese lucano oggetto dello studio del sociologo americano e ne scrissi per il mio giornale “Rassegna Sindacale” e “Diario”, con cui saltuariamente collaboravo. Ma ne presi anche spunto per un saggio uscito su “Nuovi Argomenti” nel marzo del 2000. mentre si discuteva di riforma dell’assistenza e aveva appena preso avvio la sperimentazione del “reddito minimo di inserimento”. Mi è tornato in mente in questi giorni d’esordio del “reddito di cittadinanza”, soprattutto  avendo preso parte ad alcune presentazioni di questa “misura”, nel corso delle quali i promotori mi sono sembrati un po’ troppo preoccupati di spiegare le sanzioni e le punizioni previste contro i ”furbi”, riecheggiando l’atavica diffidenza contro i poveri tanto nota in letteratura. Nel saggio  guardavo lo “strumento” individuato per “certificare” la povertà, il “riccometro”, alla luce di questo atteggiamento culturale e politico. Ripropongo lo scritto senza cambiamenti, non credo lo abbiano letto in molti (nonostante la prestigiosa sede di pubblicazione – la rivista fondata da Pasolini e Moravia) e mi fa piacere segnalarlo, ritenendo perfino che qualcuna delle osservazioni in esso contenuta possa risultare utile anche nel dibattito di oggi.

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Una Caritas e la sua Scuola. I “piccoli miracoli” di Don Alberto

Nel 1992, nei giorni successivi all’assassinio di Paolo Borsellino, nella più piccola diocesi d’Italia, la Caritas fonda una Scuola di formazione all’impegno sociale e politico dedicandola alla sua memoria. Venticinque anni dopo, un libro intervista – che ho avuto l’onore di curare – racconta, dando la parola al suo ideatore, don Alberto Conti responsabile della Caritas di Trivento, la straordinaria vicenda di questa istituzione che ha ha richiamato, come docenti, personalità eminenti del mondo cattolico e laico del nostro paese. Battaglie sociali, civili, politiche che nascono tutte da un profondo impegno religioso, perché la ragione, e la spiegazione di tutto, è già scritta nelle Sacre Scritture. Il libro si intitola “Come in cielo così in terra”, è stato presentato a Capracotta da don Luigi Ciotti, il 9 agosto. Quelle che seguono sono le pagine iniziali. 

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Io Bernie Sanders per un mese

È mio quel volto affaticato e un po’ gonfio che annuncia, con un ultimo live streaming su facebook alle prime luci dell’alba di lunedì 6 giugno, la fine del mio piccolo sogno, quello di diventare sindaco di Alatri, un paese di trentamila abitanti piantato in mezzo al Lazio, nel cuore di quello che fu lo stato pontificio. Il risultato dello scrutinio è ormai definito, non sono andato oltre il 12,6% dei voti, al di sotto delle mie speranze, anche se tutti quelli che mi stanno intorno nella lunga notte dell’attesa continuano a spronarmi, cercando di convincermi che non è così. E mi ripetono che il mio successo personale è sotto gli occhi di tutti, mentre Mario Vito, mio figlio, scruta preoccupato  l’impercettibile balzo dei miei umori allo sfilacciato arrivo del responso dei 21 seggi elettorali nei quali è distribuito “il popolo sovrano” della mia città, frammentato in 22 mila cittadini elettori.

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Il “modesto” Marianetti

 

Il “modesto” Marianetti, così Stefania Craxi aveva definito Dino quando nelle drammatiche vicende che stavano portando alla morte il Partito Socialista a qualcuno era venuto in mente di proporlo, come scelta disperata, alla guida di quel che restava del più antico e glorioso dei partiti italiani. Lo ricorda lo stesso Marianetti nella sua autobiografia (“Io c’ero”) che è stata presentata ieri alla Biblioteca del Senato, poche ore prima che ci giungesse, preannunciata però dalla sua assenza in un’occasione alla quale non sarebbe mai mancato per sua volontà, la notizia della morte. L’episodio e il passo del libro di memorie che lo racconta sono stati citati da Giuseppe De Rita, che ha commentato – rivelando di essere pure lui ciociaro, di Pontecorvo, come Marianetti che era nato a Tripoli nel 1940 ma era cresciuto a Morolo e Colleferro – che c’è una nobiltà nell’essere modesti, autodidatti, consapevoli di essere parte di una comunità che ti affida grandi responsabilità e che perciò deve essere rispettata rinunciando alla facile tentazione di fare la corsa da soli.

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