Quello che mi sorprende, rileggendo il servizio che curai per “Rassegna Sindacale” (siamo nel settembre del 1983) alla notizia della morte di Piero Sraffa, il grande economista, amico e leale interlocutore di Gramsci nel periodo in cui il fondatore del Pci fu recluso nelle carceri fasciste, è il “tono” del box con un titolo che giocava un po’ – in modo che adesso mi sembra troppo disinvolto – sul ricordo del romanzo di Achille Campanile “Il povero Piero”. Allora, fresco di nomina, ero caposervizio cultura del settimanale della Cgil, diretto da Francesco Cuozzo, un giornalista che sarebbe approdato da lì a qualche anno alla redazione dei telegiornali della RAI. E il direttore, che improntava la sua linea politico-editoriale sulla denuncia delle “arretratezze” della sinistra (non credo che all’input fosse estranea la volontà di Luciano Lama, al tempo segretario generale della Cgil, proprietaria del periodico) mi aveva chiesto di capire perché Sraffa, del quale al momento della scomparsa tutti ammettevano la grandezza scientifica e l’importanza culturale, fosse stato fino a quel momento un “dimenticato”.
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