memoria, Ritratti

I perciatellini di Pietro

“Pietro e Alatri”, un ricordo sulle amicizie e sulle riviste che PietroTripodo “frequentò”  nella cittadina ciociara, dove per alcuni anni operò una piccola casa editrice, l’Hetea, che pubblicò un testo raro di Giuseppe Gioachino Belli, una rivista dell’avanguardia artistica con un numero speciale dedicato a Pizzuto, zeppo di inediti, e un libro di saggi su Tommaso Landolfi. Adesso Pietro viene ricordato con una masterclass dell’Università di Cassino e dell’Associazione Gottifredo.

Pietro cominciò a frequentare Alatri, dove si sarebbe costruito una fitta rete di amici ed estimatori, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando incontrò a Roma, al collegio del Nazareno, del cui istituto scolastico annesso furono ambedue istitutori, Raffaele Manica che me lo presentò. Non ricordo se lo incontrai per la prima volta ad Alatri o a Roma – in una trattoria nella quale discutemmo dello spessore più adeguato delle fettuccine e della nobiltà, per Pietro insuperabile, dei perciatellini del rinomato pastificio abruzzese di Fara San Martino. Ricordo questo particolare perché, riflettendo sulla nostra amicizia, quando ne erano potuti restare solo il ricordo e il vuoto, sono arrivato alla conclusione che l’oggetto delle conversazioni per Pietro non fosse mai innocente, casuale; e che lui piuttosto si ingegnava, al primo contatto, a  fermarsi su un argomento innocuo, che non facesse correre il rischio di discussioni troppo accese e da cui, anche il perdente della controversia dialettica, potesse ritirarsi senza danno e il rancore che avrebbero pregiudicato i rapporti successivi.

Pietro, inoltre, aveva una straordinaria capacità di intuire nell’altro quello che potesse essere di suo interesse, e di segnare così i confini e i contenuti del dialogo individuando quelli nel quale l’interlocutore si sentisse –  o potesse mostrarsi – sicuro delle sue competenze: era un modo, cerimonioso e circospetto insieme, di metterlo a suo agio, di dare prova di buona educazione, più che di circuirne l’affetto: di me sospetto avesse capito che non ero in grado di reggere, come pure mi sarebbe piaciuto e mi intestardivo a fare, i suoi ripetuti e sofisticati richiami alla “Cognizione del dolore” e al “Pasticciaccio”, o alle regole della versificazione classica, o ai tanti poeti d’ogni tempo e lingua che aveva letto e citava, e mi offriva un terreno di confronto incruento, dove le mie eventuali sconfitte argomentative (anche sull’intimo essere di perciatellini e fettuccine, di cui era esperto sul serio) potessero suonare – per via della coloritura di scherzo che ammettevano – meno perentorie, più accettabili.

Tutta la nostra amicizia si è fondata su questo equivoco, su questo gioco, ciò non ha impedito che sia stata forte e unica, così come forte e unica è stata l’amicizia che con ciascuno dei suoi amici egli ha saputo sviluppare: amicizie senza il rischio di smentite o delusioni, perché Pietro chiedeva e otteneva esattamente quello che ogni suo amico poteva offrirgli, rendendo tutti insostituibili nel suo universo reticolare di rapporti e proponendosi come insostituibile e centrale in quello di ciascuno di loro.

Alatri e il nostro giro di amici è stato importante per Pietro non solamente per il riconoscimento affettivo che ne ha saputo trarre: suoi amici sono stati, oltre a me e Raffaele, Gianni Fontana, Luca Salvadori, musicista che pubblicava le sue poesie su Dismisura, la rivista di cui dirò più avanti; un  poco più discosto il poeta Elmerindo Fiore, anche lui componente della redazione di Dimisura e della rivista che la seguì, la Taverna di Auerbach su cui Pietro pubblicò alcune delle sue opere più significative e singolari. Ad Alatri poi, per un anno, insegnò nell’istituto magistrale Gualberto Alvino, filologo romano che Pietro già conosceva ma dalla cui permanenza e reciproca “interferenza” alatrina originò un numero della Taverna di Auerbach su Antonio Pizzuto, straordinario sia per la qualità scientifica sia per la corposa foliazione, che oltre a saggi di valore pubblicò inediti messi a disposizione di Gualberto da Maria Pizzuto, la figlia del grande scrittore.   

 “Dismisura” era stata fondata nel 1972, il primo numero della “Taverna di Auerbach” è del 1987, l’una e l’altra ebbero come sede di ideazione e realizzazione tipografica Alatri (e la tipografia Tofani) e direttore Gianni Fontana, la prima in codirezione con Alfonso Cardamone, la seconda da solo (di questa io ebbi la direzione responsabile, ma solo ai fini delle norme sulla stampa).

Era inevitabile che Pietro trovasse in queste due riviste lo spazio per dare luce alle sue prove poetiche, alle sue traduzioni, alle sue ricerche critiche, particolarmente a queste ultime che sono di tutto rilievo anche se finora non hanno trovato la giusta attenzione, essendo state inevitabilmente oscurate dall’opera del poeta e traduttore – anche oggi nel pensare questo seminario si è finito con il trascurare il suo lavoro critico che, comunque, sembra sempre funzionale a trovare nuove quadrature per la sua opera diretta.

Pietro si presenta ai lettori di “Dismisura” per la prima volta sul numero che celebra il decennale della rivista e si intitola “sulla dismisura”. Una vera e propria opera smisurata è il testo che egli  presenta, la traduzione in latino di alcune strofe del Cimitero Marino di Paul Valery, con una nota che – come ci ha raccontato Raffaele nel saggio che chiude la edizione da lui curata per Donzelli nel 2007 di “Altre visioni” – è solo una parte minima del ben più corposo lavoro che egli aveva preparato e che all’ultimo momento evidentemente aveva pensato di dover ancora migliorare e di dover perciò procrastinare rispetto alla scadenza della rivista. Nella nota, nella quale spiega di aver adottato nella traduzione il metro del decasillabo cesurato e ne cataloga le molteplici varianti, Pietro “chiede venia per tutte le omissioni” e si augura che presto “possa esservi un luogo” dove poter produrre “una fondata giustificazione dell’adozione di questo metro” alludendo a uno “scritto che è già quasi portato a termine”. 

Nel fascicolo successivo della rivista (nn. 61/62, Il pozzo e il pendolo, settembre-dicembre 1982), troviamo un testo poetico di Pietro, “Paralogia regredita”, che è un ragionamento filosofico, un concatenarsi di illuminazioni di cui è forse impropria la lettura lineare, su tempo e movimento come agenti dell’agitarsi delle cose, della loro trasformazione e nel quale a me sembra di poter isolare qualche verso, qualche accoppiamento di parole, o forse solo qualche unità ritmica, che vivono in altri suoi componimenti o sono un tributo ad altri poeti. Ma questo meglio di me potrebbero dire persone con conoscenze più vaste e orecchio più esperto.

Quello che mi pare di poter affermare, invece, è che Pietro interpreta nel modo più giocoso e disinvolto lo spirito della rivista, la sua smodatezza programmatica, destinando ad essa suoi esercizi più azzardati: sperimentazioni che mai avrebbe distribuito altrove, eppure anche se si tratta di prove condotte in tutti i sensi ai margini dell’attività principale non riesce a evitare di approfondirne la portata con studi accurati che ne motivano il senso, e perciò mi sembrano di estrema utilità per avere una visione compiuta del suo stesso  lavorio poetico che, come rileva Raffaele, si prolungava ben oltre le edizioni che consideriamo definitive dei testi. 

Su un numero di “Dismisura” (il 67/73 del dicembre 1984, La Gola e l’eco) Pietro pubblica la celebre traduzione del carme XI di Orazio, che ha avuto una grandissima fortuna: un rifacimento che ha l’autonomia di un testo primario e che, però, nello stesso tempo è la più fedele rappresentazione di un sentimento oraziano, quell’amara e quieta riflessione sull’esistenza, sulla giovinezza che passa, sull’amore, sulle cose perdute che lo avrebbe guidato in tutta la sua poesia, fino alla prova suprema di “Vampe del tempo”. 

A metà degli anni ottanta, la redazione di Dismisura vive una polemica interna che provoca una scissione per effetto della quale nasce La Taverna di Auerbach, il cui primo numero, uscito recando la data dell’autunno 1987, ospita una sezione che, nelle intenzioni dei redattori e del direttore avrebbe dovuto ripetersi in ogni fascicolo, chiamata “il gioco del tradurre”: una scelta dettata certamente anche dall’ entusiasmo che aveva suscitato l’esperimento della traduzione di due anni prima condotto da Pietro su “Dismisura”. Non a caso il primo testo proposto al rifacimento di poeti, filologi, semplici amanti della poesia, è ancora un carme di Orazio, quello del Soratte imbiancato di neve: Pietro non ne dà la traduzione completa ma rende conto dell’esito di più rifacimenti delle strofe iniziali e finali; rifacimenti che sembrano confermare ciò che Raffaele scrive nella breve nota esplicativa che presenta i componimenti là dove segnala che questo gioco del tradurre e del rifare, ciascuno con la sua sensibilità e il suo ritmo interiore, è innanzi tutto un ricercare l’Orazio che c’è in noi e quindi, potremmo aggiungere, un abbandonarsi a un processo creativo che non può mai appagarsi e si arricchisce della perizia artistica e della vita vissuta con cui siamo capaci di farlo lievitare e di volgerlo alla risposta dei nostri più radicali interrogativi. O magari solo per riproporre, in altri termini, le stesse domande. Detto per inciso, le “variazioni” presentate in quella “Taverna” sono tutte d’alto livello e aiutano davvero a rinnovare l’eco oraziana che portiamo dentro di noi, ciascuno a proprio modo; fra tutte vorrei ricordare la versione in lingua napoletana di Franco Cavallo, con quel suo incipit “Bello o’ Soratte, Taliarcuccio mio” che mi si rivelò, e ancora oggi mi pare, notevole.

Il numero successivo della “Taverna” è il già ricordato “speciale” su Antonio Pizzuto, con inediti dello scrittore siciliano, alcune lettere di Contini e tanti saggi che si presentano con paludamenti diversi ma tutti accomunati, almeno così mi sembra – da una vena antiaccademica, anche là dove hanno la maestosa andatura di studi filologici, quasi una sorta di tributo destinato più a Contini e al Pizzuto continiano che a Pizzuto stesso. Pietro scrive un saggio impegnato (che dedica a Gualberto Alvino), “Vox circumsiliens”, uno scritto che non provo nemmeno – tanto sarebbe arduo – a riassumere, il cui assunto di fondo è tutto nell’affermazione iniziale: “Non credo che Antonio Pizzuto promuovesse, di sé, una lettura consacrata al puro rimbombo dei significanti” e prosegue nella decifrazione dei significati e nell’illustrazione della metrica della pagina pizzutiana, contestando anche alcune notazioni che lo scrittore stesso aveva confidato in una famosa intervista raccolta in libro da Paola Peretti per le edizioni Lerici, con il titolo di “Pizzuto parla di Pizzuto” (un volume difficile a trovarsi per le vicissitudini della casa editrice ma assolutamente insostituibile).

Sempre di Pizzuto, ma questa volta come recensione al volume monografico precedente, Pietro scrive sul numero 5/8 della “Taverna” (Inverno 1989 – Inverno 1990), nello stesso fascicolo recensisce “Cuore” di Beppe Salvia, che fu il primo volume, datato 1988, di una collana di prosa e poesia dell’editore Rotundo, diretta da Arnaldo Colasanti e che ospitò tre anni più tardi l’esordio di Pietro con Altre Visioni; nella recensione egli non nasconde l’ammirazione per il poeta romano, tra i fondatori della rivista Braci all’inizio del decennio che si era allora appena concluso:” e quando leggo quelle sue cose – scrive – ho voglia di buttare tutto quello che ho scritto (…) E sempre, leggendolo, io scopro una Bellezza nuova, che mi sembra una Verità, ma vera, e di nuovo, in una nuova Storia”.

La “Taverna di Auerbach” veniva curata e stampata da una casa editrice di Alatri, Hetea editrice, che aveva delle ambizioni e in quegli anni contò numerose pubblicazioni, qualcuna rara: per esempio, in una collana diretta da Raffaele, “Munuscula”, venne stampato, per iniziativa e con la curatela di Marcello Teodonio, un epistolario di Giuseppe Gioachino Belli che raccontava di una sua convalescenza passata a Veroli, a pochi chilometri da Alatri, nel “paese degli antropofagi”. Ma sempre l’Hetea – e per questo il ricordo in questa sede è pertinente – pubblicò gli atti di un convegno su Tommaso Landolfi (“Landolfi libro per libro”), svoltosi nel dicembre del 1987 a Pico e a Frosinone, nel quale Pietro tenne una relazione sui due libri di poesia di Landolfi, “Viola di Morte” e “Il tradimento”. Si tratta di un contributo notevole che, rivelando tutte le diffidenze di Pietro per il Landolfi narratore ma anche la sua, in certo senso, sorpresa ammirazione per il meno noto Landolfi poeta, spiega molte cose sulla poetica dello stesso Pietro, sulla sua distanza da quel manierismo che sentiva gravare sulla sua poesia, come una sorta di pregiudizio o pericolo da cui intendeva liberarsi.

Ad Alatri, più tardi, nella primavera del 1998, si celebrò un omaggio a Pietro, con la presentazione – cui parteciparono insieme con noi, amici di Alatri, tanti altri amici accorsi da Roma – dei Canti di scherno e d’amore di Arnaut Daniel, una traduzione magistrale che – come scrive Paolo Canettieri nel suo ampio saggio introduttivo – “riflette in modo organico e complessivo l’impianto della poesia del miglior fabbro, tutta giocata com’è sulla lingua e sullo stile, in una simbiosi pressoché totale con il testo tradotto”.  Allora già conoscevamo tutti, Pietro per primo, la gravità del male che lo aveva colpito, ci illudevamo però che queste manifestazioni di stima e affetto, questo ragionare pubblico sulla sua poesia, cercandone le chiavi che l’avrebbero conservata oltre il tempo concessogli dal destino, potessero placare una sorta di senso di colpa che provavamo per non poter fare altro – noi tanto meno meritevoli e necessari di lui – che accompagnarlo in quell’ultima disperata traiettoria della sua vita segnalandolo come un maestro al di fuori della cerchia ristretta che tale già lo stimava.

Ancora quel sentimento mosse chi di noi – questa volta a Frosinone – organizzò, nel 2014 a quindici anni dalla morte, un suo ricordo – con contributi critici ma soprattutto con opere musicali composte per l’occasione (quelle di cui scrive   approfonditamente Michele D’Ascenzo su Nazione Indiana) – nel Conservatorio Licinio Refice, un luogo della musica sempre attento – fin dalla costituzione e per volere del suo fondatore – all’intersezione tra le arti e alle sperimentazioni musicali più innovative.

Per quel convegno utilizzammo come immagine di copertina un ritratto di Pietro “senza occhiali” disegnato da un artista di Alatri, Mario Ritarossi, per una cartella che aveva messo insieme, nel 2004, i diversi dattiloscritti testimonianti i progressivi rifacimenti del Carme XI di Orazio, anch’essa pensata ad Alatri e stampata dallo stesso tipografo che era stato editore di “Dismisura” e della “Taverna di Auerbach”.

Come si vede, la tela di rapporti che unisce Pietro ad Alatri, nata per la provvidenziale casualità che aiuta le amicizie a manifestarsi e ci fa incontrare le persone che ci siano davvero indispensabili, è fitta, si è allargata e rafforzata per venti anni, anche a non voler considerare le tante occasioni private, le giornate passate con le nostre famiglie, i momenti memorabili come quando – proprio a conclusione della serata in cui presentammo la traduzione dell’Arnaut – visitammo insieme – pure io per la prima volta – un palazzo storico della nostra città che, chiuso e interdetto da anni, praticamente fu aperto dal proprietario per un atto di riguardo nei suoi confronti.

Non posso ritenere solo frutto di casualità, allora, che stasera sia stata Roberta Alviti a presentare le sue traduzioni inedite di Machado; Roberta, filologa e ispanista dell’Università di Cassino, coinvolta dal filologo romanzo Carlo Pulsoni, è nata e vive ad Alatri, possiamo perciò considerarla una nuova amica di Pietro, il nodo più recente del suo legame con la città. Penso che questa coincidenza lo avrebbe incuriosito e non gli sarebbe dispiaciuta.   

(8 novembre 2018- Roma, Società Dante Alighieri)

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