I colori lividi e vividi del ritratto a olio di Nicola Crapsi catturano l’attenzione del visitatore che varca la soglia della piccola sala riunioni della Camera del lavoro di Santa Croce di Magliano, il paese del Basso Molise — a una quarantina di chilometri appena da Foggia — che è una delle piccole capitali del sindacato italiano. L’orizzonte è segnato dal profilo lungo del Tavoliere delle Puglie, ricco dell’acqua che la diga di Occhito devia dal fiume Fortore e incanala lontano dai piccoli centri molisani, a cui sarebbe naturalmente destinata, lasciandoli aridi nell’estate che la ventosità collinare non basta a rendere meno violenta. Il ritratto, opera massima probabilmente di un pittore locale, è una specie di frutto sincretico di immagini archetipe diverse. O, più banalmente, è un miscuglio di tratti che ricorda molto da vicino quegli identikit composti con tessere diverse che stentano a riconciliarsi in una sagoma, o in un volto, attendibili. Nella combinazione degli elementi si riconoscono le due grandi matrici iconografiche che il pittore portava nella mente. Quella di Lenin che arringa la folla, in uno dei comizi più celebrati della rivoluzione, e l’altra, più familiare, di Giuseppe Di Vittorio, con la mandibola tesa e nella postura diritta da cafone che sfida, con testarda e altera mitezza, gli agrari suoi padroni. Nicola Crapsi non era però un contadino povero. Era un operaio elettricista che si convertì ancora bambino al socialismo e tra il 1921 e il 1922, coppia di anni fatali della storia d’Italia, diventò poco più che ventenne sindaco del paese prima d’essere deposto dalla vittoria del regime fascista. Il suo nome figura al quarantaduesimo posto nell’albo affisso nell’angusto atrio del palazzo municipale, subito dopo il quarantunesimo Domenicantonio Guglielmo, e un quarantunesimo bis, Pasqualino Colombo, sfuggito alla prima elencazione e recuperato in calce con un asterisco per non rimettere mano alla numerazione della graduatoria. Il quadro che lo immortala mentre parla, con le dita forti su cui stinge il grigio del doppio petto aggrappate a quella che deve essere la balaustra di un balcone o di un palco, addossato sulle sinuosità di una bandiera gonfiata lievemente dal vento, è oggetto di un culto particolare.
Ogni anno, il primo maggio, viene fatto sfilare alla testa del corteo organizzato dalla Cgil per tutte le strade del paese. Come l’effige di un santo, ad aprire, subito prima della banda, la processione laica che si muove per ricordare, pressappoco nei giorni stessi in cui si avvia a compimento il ciclo dell’eterno ritorno delle messi, l’onore di quest’uomo che da sindacalista, nel primo dopoguerra, si preoccupò di raccogliere fondi per gli operai dei pastifici di Isernia perché ce la facessero a resistere nella lotta per ottenere la riduzione dell’orario di lavoro da dodici a dieci ore; e che, qualche decennio dopo, negli anni cinquanta, prima di diventare per un breve biennio, l’ultimo suo avanti di morire, deputato comunista, si preoccupò delle pensioni di centinaia di braccianti portandoli tutti all’iscrizione nelle liste dei contributi unificati.
Durante il percorso processionale le finestre si aprono, da qualcuna si lanciano confetti e si accennano moti di saluto, soprattutto quando la marcia si infila nel viale basso del paese, dove si indovinano le residenze dei più anziani e memori. Il ritratto viene poi portato sul palco del comizio, posto — sostenuto dai più giovani — al fianco dell’oratore, come se gli si chiedesse di ascoltare e lo si volesse testimone del discorso, giudice della fedeltà ai principi. A Santa Croce di Magliano si fa la festa di Nicola Crapsi. E nel suo nome si conferma anno per anno un originale rito di appartenenza del sindacato italiano e della sua impronta pragmatica e riformista. Succede tutti gli anni, ma quest’anno ancora di più. Perché questo è l’anno in cui il sindacato italiano è stato trascinato davanti alla sua sfida decisiva; è stato portato, si potrebbe dire, all’incrocio con il suo momento cruciale.
La sfida si chiama articolo 18, uno dei quarantuno di cui si compone lo Statuto dei lavoratori, la legge voluta poco più di trent’anni fa da Giacomo Brodolini, il socialista ministro del lavoro che ne annunciò l’imminenza parlando ai braccianti nel municipio di Avola e agli operai della fabbrica romana dell’Apollon, con i quali, con gesto carico della passione di quel tempo e di quei socialisti, trascorse la notte del suo ultimo capodanno. Vuole il racconto di quei giorni che nella stesura primitiva del testo l’obbligo della reintegra di chi fosse licenziato ingiustamente — e cioè senza giusta causa e giustificato motivo: quest’ultima definizione a indicare una colpa più tenue o un motivo oggettivo inerente ragioni della produzione oppure organizzative — non fosse stato inserito dal manipolo di giovani giuristi capita-nati dal coetaneo maestro di tutti loro, Gino Giugni, e avesse trovato posto nell’elaborato in un secondo momento, per l’insistenza di alcuni del gruppo, convinti che solo attribuendo ai lavoratori una tutela “reale” si sarebbero potuti pienamente dispiegare gli effetti innovatori della riforma, provvedendo davvero in modo, come titolarono i giornali dei tempo, che la Costituzione della Repubblica entrasse finalmente dentro la fabbrica. Risulta, tuttavia, difficile immaginare oggi lo Statuto senza quell’articolo che, secondo molti, ne costituisce l’architrave, assicurando al sistema dei diritti là enunciato una forza che dall’insieme si trasmette a ciascuno di essi. Anche la garanzia, che si dice di non voler ridiscutere, del divieto di licenziamenti discriminatori, adottati cioè contro chi svolga attività sindacale o professi credi politici non graditi o, ancora, per altri motivi alla stessa stregua arbitrari, non avrebbe lo stesso valore se non consolidato da una disposizione collegata a una meno opinabile necessità di dimostrare che discriminazione ci sia stata effettivamente. È singolare — scrive un sindacalista, Andrea Ranieri — che un governo che si definisce campione delle libertà liberali, cominci il suo discorso sul mondo del lavoro togliendo ai soggetti di quel mondo, e poco importa se con intenti di sperimentazione e con applicazione limitata, come si precisa non del tutto sinceramente, un diritto che rafforza la libertà d’essere ognuno se stesso in qualsiasi passaggio della sua vita. Non a tutti, si obietta, questo diritto è assicurato; anzi a usufruirne, si insiste, è una parte neppure maggioritaria, i píù essendo rimasti a leggi che non assicurano il ritorno al posto ingiustamente sottratto. Altri ricordano che sono i nuovi mestieri, dai contorni indefiniti quanto al rapporto di lavoro, almeno, se non ai contenuti del lavoro stesso al contrario sempre assai netti, a richiedere adeguamenti; e si fa movendo da qui una crociata finta in favore di nuovi diritti imprecisati contro i vecchi, come se — e non è stato mai così prima d’ora, non trattandosi di privilegi — l’acquisizione di quelli dovesse attuarsi in luogo e danno di questi. Altri ancora aggiungono che se da noi è largamente inferiore che altrove la quantità di quelli che sono occupati, ciò si deve al lascito del vincolo a licenziare e non, come sembrerebbe anche al più ingenuo, per i ritardi produttivi del sud, per l’insufficiente occupazione femminile, aggravata dal ricorso assai tiepido al tempo parziale e dall’assenza di servizi cui affidare i figli, per l’estensione malata del lavoro nero e sommerso, che tale rimane non per sfuggire alle maglie delle regole sui licenziamenti ma piuttosto per sottrarsi puramente e semplicemente alle regole e continuare così a prosperare dei vantaggi che l’illegalità, in un paese vocato ai condoni, sempre assicura o promette di assicurare. Non è questo, però, il peggio: confondere cioè piani diversi, vizi o strettoie dell’economia con leggi necessarie non per far funzionare l’economia, che non pare essere il compito precipuo delle leggi, ma per attestare della civiltà dei rapporti tra le persone e dell’irriducibilità, su cui si fonda ogni nostra speranza, di questi allo scambio mercantile, al disinibito combinarsi del rapporto di forza. Il peggio è proprio in dipendenza di quest’ultimo aspetto. L’articolo 18 è davvero un simbolo concreto, meglio ancora è la raffigurazione in una sintesi totale di ciò che è e di quale sia la funzione del diritto del lavoro, il cui progredire, spinto dal soffio dei molteplici riformismi che qui da noi hanno tenuto a lungo il proscenio, è stato segnato dall’etica finalità di risolvere uno squilibrio di partenza, una disparità tra soggetti di forza ineguale; di compensare lo smacco da sempre patito da chi è proprietario solo della sua capacità di lavoro e da chi ogni giorno la compra offrendo l’occasione di metterla alla prova. Il divieto di licenziare senza una giusta causa, senza perciò che la lealtà del rapporto e l’autonoma etica dello scambio a esso sottesa siano state compromesse e violate, è il punto massimo di correzione, riformisticamente perseguibile, della subordinazione del lavoratore al suo datore di lavoro; un esempio elevato di come per via di legge, e perciò per via di politica e di riforma, si possa neutralizzare lo svantaggio del più debole contro la parte più forte. L’ostinata volontà del sindacato italiano di non modificare i punti cardine di quell’articolo, e neppure per prova perché non tutte le sperimentazioni solo per il fatto d’essere tali debbono essere anche accettate, dato che — a forzare — l’illecito non va mai sperimentato, è dunque ineccepibile e lungimirante. Se si manomette il punto più forte del sistema, tutto il resto ne subirà le conseguenze, l’equilibrio si ricostituirà su fondamenta più fragili, i presupposti nuovi diritti risentiranno di un contesto da cui è sparito il segno più netto, quello che invera tutti gli altri e segnala un punto d’approdo dove la dignità della persona che lavora è ipostatizzata senza compromessi e senza subordinate che ne attutiscano l’assoluta evidenza. Perché se uno è cacciato via, senza colpa, e qualunque sia il posto da cui viene cacciato — una fabbrica, una terra o una casa — è il suo diritto tornarci, come unico risarcimento possibile al torto patito.
La sfida dell’articolo 18 è totale, riguarda anche il sindacato, la sua organizzazione, la sua funzione. Questo, anzi, è il suo contenuto più autentico, la posta in gioco più alta, quella che, alla fine del conto di svantaggi e convenienze, ha spinto governo e confindustria insieme a sferrare un attacco di cui altrimenti si stenta a capire la vera urgenza. L’obbligo dell’esercizio della tutela reale del lavoratore è la premessa per il libero svolgersi dell’attività sindacale dentro una fabbrica; il sindacato italiano è debitore dei suoi tassi di adesione più consistenti che negli altri paesi europei a tanti fattori, ma tra questi non ultimo è quello che dispone una difesa efficace, perché priva dell’onere della prova a carico del più debole, contro il licenziamento arbitrario. La rimozione di tale paravento, perciò, come dimostra la parallela vicissitudine delle aziende più piccole, quelle i cui cancelli per deficienza numerica non sono state mai varcate dalle regole dello Statuto, determinerebbe subito l’effetto di rendere insicura l’adesione al sindacato, di scoraggiarla, di risospingerla a elemento del gioco delle parti, oggetto di trattativa e non più tutelata pretesa del rispetto d’un diritto stabilito dalla Costituzione da cui nasce l’ulteriore diritto dell’organizzazione sindacale di poter operare senza vincoli, ricatti e ostilità manifeste: dal momento che contro quelle subdole non c’è, come è ovvio, legge che possa. In altre occasioni si è tentato di mettere sul piatto questa posta estrema: l’annullamento del sindacato, la sua riduzione a ente di consulenza e servizio o, nei regimi dittatoriali e populisti e nei sogni del velleitarismo paternalista, a rete di circoli dopolavoristici, là dove — ammoniscono le targhe — è vietato parlare di politica. Non è solo una caricatura e non si è verificato solo nelle nostre contrade, se la citazione largheggiante sulle bocche dei responsabili del governo ricorda gli esempi vistosi della dama di ferro e dell’attore di Hollywood prestato alla politica (che in verità accetta troppo facilmente prestiti da restituire poi con abbondanti interessi). Ogni volta che sia accaduto la replica è stata dura e le lotte senza via d’uscita. Spesso, non sempre, il sindacato le ha perse; mai però ha evitato di combatterle. Sconfitte eroiche, ha chiamato quelle di esse conclusesi malamente una sociologa americana, che in un suo studio decennale ne ha analizzate alcune delle più famose, una in Giappone, un’altra in Gran Bretagna — quella memorabile dei minatori che, alla fine dell’età del carbone, proclamavano l’obbligo allo sfruttamento delle miniere fino al naturale esaurimento — un’ultima in Italia, alla Fiat interrotta con la sottomissione al diktat della cassa integrazione per ventitremila persone, dopo la rivolta contro l’occupazione degli stabilimenti esplosa, si era al principio degli anni ottanta, nella manifestazione passata alla storia come marcia dei quarantamila. Avverrebbe, cioè, che — in apparente contraddittorio con la tendenza naturale a un equilibrio nei rapporti tra le parti frutto della ricerca delle soluzioni meno onerose — il sindacato scenda in conflitti assoluti se a essere minacciata sia la sua stessa esistenza, la presenza dell’organizzazione all’interno del luogo di lavoro, la possibilità che i suoi militanti svolgano le iniziative per conquistare proseliti. Il sospetto è che oggi, da noi, si sia proprio a questo punto. O ad esso ci si sia avvicinati di molto, e il resto del cammino dipenda dalla direzione che si imboccherà adesso. All’inquietudine danno alimento le dichiarazioni di ministri e industriali, il preannuncio minaccioso (senza la minaccia implicita, si tratterebbe di atto di routine quando non addirittura dovuto) di voler guardare con attenzione ai bilanci del sindacato e al finanziamento delle loro manifestazioni, la proposta di nuove tipologie contrattuali misurate su un posticcio bisogno del singolo e impoverite dell’orizzonte della necessità comune e della forza che da questa caratteristica può derivarne ai fini di fissare le condizioni migliori grazie all’azione di un agente di contrattazione collettiva come il sindacato. L’articolo 18 non è, in quest’ottica, né un tabù né un vuoto simulacro, ma la prova generale che darà il via libera o meno al cambiamento del sistema intero delle relazioni industriali costruito dalla storia e dalla perizia degli uomini nel nostro paese in cinquanta anni: e in difesa del quale perciò la lotta non può che essere estrema, senza limiti anche a costo di una sconfitta eroica.
Nella piazza, rinfrescata dal vento che scolorisce il sole del pomeriggio, si conclude il comizio del primo maggio di Santa Croce di Magliano, piccola capitale del sindacato italiano, nell’anno in cui esso per la prima volta nella storia della Repubblica ha la sensazione di trovarsi davanti a un passo decisivo, prossimo a oltrepassare un confine dietro cui si rivelerà un altro paesaggio. Con altre parole, più adatte e dirette, di questo ha parlato l’oratore che ha pronunciato il discorso sotto lo sguardo obliquo, rivolto ad altri astanti e attraversato da altri pensieri, del Nicola Crapsi raffigurato nel dipinto ormai vicino a essere riconsegnato alla parete della sede di quella Camera del lavoro di cui fu, nelle testimonianze di chi lo conobbe, inarrivabile guida. Prima, nel cimitero cittadino, è stata mostrata la tomba rimessa a nuovo dagli edili molisani della Cgil, dentro cui Crapsi e la moglie hanno trovato riparo. L’insistenza dei momenti della rievocazione non nasce però unicamente dalla particolare passione degli uomini della sinistra di questa regione che sembra sappiano rivolgersi al futuro solo a condizione di caricarsi sulle spalle tutto il passato possibile. Questa volta la spinta è anche un’altra, arriva dalle vicende tormentate di oggi; dalla convinzione che qualcosa di importante, di costitutivo, rischia d’essere rimesso in discussione se non addirittura perso. E in nome del quale anche la liturgia laica della processione di Santa Croce chiama a raccolta, rinnovando il rito.
Note
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Andrea Ranieri è il segretario generale della Federazione Formazione e ricerca della Cgil. Scrive: “Il governo che proclama la crisi del sindacato e della contrattazione collettiva in ragione del fatto che il lavoro e il suo mercato si fanno sempre più individuali, comincia tagliando un diritto alla persona che lavora, riduce la sua libertà di scelta, punta alla pura e semplice disponibilità delle imprese sulla forza lavoro” (I diritti alla frontiera dell’innovazione, in “Italianieuropei”, 2/2002, pag. 64).
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La sociologa si chiama Miriam Golden e il libro che racconta la sua ricerca è del 1997, ma è stato pubblicato in Italia solo a fine del 2001, con il titolo Eroiche sconfitte, spiegato da un sottotitolo che aggiunge: “sindacato e politiche di riduzione del personale” (Il Mulino, 2001, pp. 288). La sua tesi centrale — scrive la stessa autrice nella prefazione all’edizione italiana — “è che i sindacati si oppongono alle riduzioni di personale solo se esse rappresentano una grave minaccia per la stessa organizzazione sindacale”. Sarebbe accaduto così alla Fiat nel 1980 e l’assenza di questo pericolo (per una condotta aziendale più avveduta) avrebbe determinato un comportamento diverso del sindacato dei meccanici inglese in occasione di un’analoga vertenza alla British Leyland, nello stesso periodo, caratterizzato dalla crisi del mercato automobilistico seguita al secondo shock petrolifero nel 1979. La studiosa arriva alle sue conclusioni utilizzando la teoria dei giochi e supponendo, di conseguenza, il comportamento razionale degli attori. La tesi viene richiamata nelle pagine precedenti per il suo valore suggestivo e l’angolazione inusuale da cui permette di osservare la vicenda italiana dell’articolo 18.
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L’oratore del comizio è Michele Petraroia, figlio di contadini, licenziato per rappresaglia antisindacale da un’azienda lattiero casearia, diventato segretario generale della Cgil del Molise. È lui che mi ha parlato per primo di Nicola Crapsi e della processione che annualmente lo ricorda.
(Nuovi Argomenti, n. 18/aprile-giugno 2002, pp. 54-63, con il titolo “Articolo 18”)
L’immagine di apertura è di Mario Ritarossi che la disegnò per un’iniziativa editoriale di Rassegna Sindacale in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, nel 2011.
Il quadro è quello di Nicola Crapsi custodito nella sala della Camera del Lavoro di Santa Croce di Magliano