memoria, Ritratti

“Quel Gino Conti sono io”

«Gino Conti», «Stanko»: ancora oggi Alfredo Bonelli ricor­re frequentemente agli pseudonimi, o meglio ai nomi di batta­glia, della sua giovinezza per presentarsi all’interlocutore. Può sembrare civetteria, o la fissazione di un vecchio che vede inci­se nel cristallo di due nomi le due esperienze vitali della sua esistenza, quelle a cui affida il compito di interpretarne  il senso e trasmetterne il valore fondamentale: «Gino Conti», e cioè la Resistenza, l’organizzazione clandestina del Comitato di Liberazione Nazionale e del Partito Comunista in Ciociaria, «Stanko», e cioè la militanza internazionalista in Jugoslavia, l’opposizione antitoista, la formazione a Fiume, in nome del­l’ortodossia, di una cellula comunista schierata contro il mare­sciallo partigiano, scomunicato nel 1948-49 da Stalin e dal Cominform. In Ciociaria dall’ottobre del 1943 al marzo del 1944, in Jugoslavia dal novembre del 1948 alla fine del luglio del 1950, infatti, Bonelli cerca di apporre una sorta di timbro personale sulla sua vicenda di militante comunista e di «rivo­luzionario di professione» scegliendo di andare incontro da solo, invece che confuso nell’anonima e disciplinata falange del suo partito, alla Storia. Compie, si potrebbe insinuare, per due volte un atto di superbia: cede alla tentazione di un peccato che, tanto nella mitologia cristiana come nell’ideolo­gia del comunismo terzinternazionalista, ha il significato di un’individualistica, e perciò insopportabile, affermazione di identità.

Il paravento degli pseudonimi però non è per Bonelli solo il paradossale strumento utilizzato per fissare oggi due momen­ti del passato. Né è solo il prolungamento di un’abitudine acquisita nel corso di una vita trascorsa, nella giovinezza e in parte nella maturità, a sottrarsi al controllo della polizia di due regimi. E’ stato ed è qualcosa di più. Qualcosa che assomiglia a un inconsapevole alimento offerto, volta per volta, da Bonelli stesso per mettere in moto quella  vera e propria  congiura  del  silenzio  che circonda  i momenti cruciali della sua vita. Così in Ciociaria, dove Bonelli c’è stato e ha lasciato una traccia profonda,  ma dove, tutta­via, amici e nemici sembrano aver ingaggiato negli. anni un’o­scura lotta per coprirla e sviarla, rifiutando di svelare (chi ne era a conoscenza) o di cercare (chi avrebbe avuto la possi­bilità di farlo)  quale fosse  la vera identità del misterioso Gino Conti, giunto improvvisamente ad Alatri, un giorno del dicem­bre del  1943 – come ricorda la autorevole testimonianza di Angelo Menicucci, che però erroneamente posticipa la data dell’arrivo -, per prendere contatto a nome dei comuni­sti con i giovani cattolici della città, che avevano appena inziato, o stavano per iniziare, la pubblicazione clandestina del loro giorna­le «Libertà».  «Un confinato che stava a Trisulti» hanno spie­gato successivamente, per anni, i suoi complici cospiratori di allora.  «Un dirigente venuto da Roma»  ha scritto più  di un trentennio dopo Tullio Pietrobono, il giovane «quadro» comu­nista di Alatri reclutato da Bonelli tra la fine  del 1943 e l ‘ini­zio del 1944 su suggerimento dell’altro giovane dirigente in for­mazione, Raul Silvestri. «Una persona distinta, cauta, evi­dentemente  esperta  di  clandestinità  e  cospirazione»  hanno ribadito altri ancora. E così per oltre mezzo secolo Gino Conti è rimasto un nome appiccicato su alcuni frammenti  di memo­ria, l’evocazione di un’epoca più che una persona  di carne e ossa; un tale capitato in Ciociaria quasi per  caso più che un dirigente politico arrivato, certo un po’ fortuitamente,  ma con un obiettivo preciso: quello di dar vita a un fronte  antifascista e antinazista  e di  organizzare  la Federazione  comunista  di Frosinone. Le reticenze di alcuni ed i vuoti di informazione di altri sembrano  non  avere  spiegazioni.  Già  nell’immediato dopoguerra infatti si sarebbe potuta  dare un’identità a Gino Conti o renderla nota. Un anno dopo la Liberazione, nel 1946, su «Libertà», diventato ormai da tempo organo ufficiale della DC di Alatri, compare con la firma  di Gino Conti un articolo rievocativo della stagione appena conclusa, segno di un collegamento mantenuto anche in periodi nei quali non c’era certo bisogno di nascondersi dietro nomi di battaglia. Lo stesso Bonelli ricorda oggi di aver avuto occasione  di  incontrare, negli anni sessanta, Angelo Menicucci in un raduno di reduci della Resistenza.  Ci sono, poi,  le lettere scambiate  tra Bonelli e alcuni dirigenti del PCI frusinate in tempi diversi, e questa volta in modo diretto, senza la barriera degli pseudonimi. Eppure Gino Conti ha continuato ancora per anni a nascon­dere Alfredo Bonelli, quasi che il primo dovesse servire a evi­tare, o a negare, la comparsa del secondo. L’uomo vero, la sua storia eccezionale, sono rimasti impigliati nella tela di ragno del nome fittizio, escogitato per celarsi alla repressione fasci­sta, ma poi diventato una sorta di trappola pronta a scattare ogni qual volta Bonelli ha tentato di dire la sua verità. In con­clusione di questa introduzione proveremo a sciogliere i perché del «mistero Gino Conti»: «perché»  che ci paiono  riguardare la tragica violenza della politica, non la miseria della viltà pri­vata. Non è inutile, intanto, ricordare che la vera identità di Gino Conti è venuta alla luce, inaspettatamente,  qualche set­timana dopo la celebrazione ufficiale, tenutasi  nel  novembre del 1993, del cinquantesimo della pubblicazione del primo numero clandestino di «Libertà». Della cerimonia aveva parla­to un notiziario delle Associazioni partigiane.  Datata  Milano 20 gennaio 1994 è arrivata il 2 febbraio  successivo,  indirizza­ta al Comune di Alatri, e capitata fortunatamente   nelle atten­te mani di Gigino Minnucci, capo della segreteria del sindaco dell’epoca e dirigente dell’anagrafe, questa lettera: «Dall’articolo apparso  sull’«Antifascista»  di  novembre-dicembre,  ho  appreso con stupore della commemorazione avvenuta ad Alatri del Movimento di Liberazione Ciociaro del 1943-44, senza che per­sonalmente ne fossi avvertito  e invitato. Dato che quel Gino Conti sono io. Alfredo Bonelli». In calce, alcune sintetiche notizie: «Bonelli Alfredo  (Sant’Ambrogio,  Gino  Conti, Stanko, Kalc), classe 1910, nel PCI dal 1927 in Italia e in Jugoslavia. Dimissionario nel 1951, e da allora senza parti­to». Otto mesi dopo, spinto dalla curiosità di quel perentorio e quasi spazientito «Gino Conti sono io», sono andato a tro­vare l’autore della lettera nella sua casa di Milano, dove vive con la seconda moglie, Favorita Marafante, «la donna – dice – a cui devo tutto». Da allora è nata una confidenza fitta di telefona­te e lettere, che mi ha permesso di avvicinarmi a una vicenda umana e politica straordinaria. Degna d’essere raccontata.

I primi anni da rivoluzionario di professione

Alfredo Bonelli decide di diventare «rivoluzionario di pro­fessione » nel 1927, quando, nell’aprile di quell’anno, appena diciassettenne aderisce a Milano al Partito Comunista Italiano. Lo influenzano alcune amicizie scolastiche, la lettura dei programmi internazionalisti del partito e, soprattutto, l ‘i­deologia scientifica e la capacità organizzativa che egli rico­nosce al nuovo gruppo politico e che per lui, giovanissimo ragioniere, sono sinonimo della mentalità necessaria per tra­sformare in fatto concreto le parole d’ordine rivoluzionarie da cui era rimasto impressionato divorando, anni prima, le pagi­ne dell’«Almanacco socialista» del 1920.

Il racconto di questi primi anni di impegno politico, inco­minciato subito sotto il segno della clandestinità – nel 1926 Benito Mussolini subisce tre attentati, l’ultimo dei. quali, quello del­l’anarchico sedicenne Anteo Zamboni, il 31 ottobre; la repres­sione che da essi prenderà pretesto e cancellerà le ultime forme di legalità democratica tollerate dal regime è perciò già scat­tata – Bonelli lo ha consegnato ad una lunga, emozionante autobiografia scritta tra il 1989 e il 1990, ancora inedita, che è il prezioso supporto grazie al quale possiamo ripercorrere oggi le tappe avventurose della sua vita..

La «carriera» di Bonelli sovversivo e cospiratore, dunque, prende il suo avvio da Milano, nel momento in cui l’organizza­zione comunista è già stata decimata: gli iscritti in tutta la Lombardia, in un anno, tra il 1925 e il 1926  – scrive Paolo Spriano – sono scesi da 4200 a 2000; nella sola città capoluo­go sono passati da 2847 a 1424, le cellule di officina sono solo 48, quelle di strada 131. Le prime, impegnative prove, però, Bonelli le affronta a Roma, dove, nel 1928 si trasferisce insie­me con la famiglia,  dopo che il padre, già farmacista  e imprenditore sfortunato, viene chiamato a dirigere un’azienda farma­ceutica. Nella capitale conosce subito due giovani e già impor­tanti dirigenti comunisti, Giuseppe Amoretti e Anna Bessone, ma nonostante gli venga immediatamente affidato l’incarico di amministratore del Comitato federale e cominci ad essere conosciuto nell’ambiente dei compagni come «l’americano» – per quelle caratteristiche fisiche (alto, capelli e colorito chiari) che tanto colpiranno in Ciociaria -, non riesce ad andare oltre i primi incontri. La struttura comunista romana viene cancellata dall’ondata di arresti seguiti all’attentato compiuto il 12 aprile a Milano con­tro il corteo reale diretto alla cerimonia di inaugurazione della Fiera campionaria, che costa la vita a venti persone e la cui responsabilità, sulla quale più di qualche dubbio sarà espres­so successivamente, viene attribuita all’antifascismo non comunista. A maggio cadono nelle maglie della polizia politi­ca Amoretti, che verrà poi condannato a 13 anni di prigione, la Bessone, che di anni ne prenderà 8, e dirigenti e militanti di ogni livello. Bonelli non viene toccato da queste grandi retate: troppo recente è il suo arrivo in città perché i sospetti su di lui possano prendere corpo. L’arresto arriva, comunque, nemme­no un anno dopo. Ed è la conseguenza, probabilmente, più di una ripicca nata sul luogo di lavoro (un ‘agenzia romana della Società del Linoleum, da cui Bonelli era stato assunto qualche mese prima) che di una vera e propria attività di proselitismo politico. Anche questa volta c’è di mezzo un attentato, quello compiuto da Fernando De Rosa, il 24 ottobre 1929, a Bruxelles contro il principe ereditario. Dei fatti addebitati a Bonelli si trova il resoconto in una nota della prefettura di Roma datata 11 novembre 1929: «ll Bonelli il giorno in cui si ebbe notizia dell’attentato di S.A.R. il Principe di Piemonte esclamò: “Mi dispiace che l’abbiano sbagliato, ma lo piglieran­no un’altra volta e dopo di lui suo padre e Mussolini faranno la stessa fine“. ll Giglioli [ il collega arrestato con lui, ndcJ approvando le parole del Bonelli aggiunse “Bravo Bonelli e così capiterà a tutti i fascisti della prima e dell’ultima ora”. Arrestati saranno deferiti alla competente autorità giudizia­ria». L’arresto era già avvenuto quattro giorni prima e si prolungherà fino al 4 maggio dell’anno successivo. ll Tribunale speciale celebra il processo il 30 aprile: il capo di imputazione relativo all’apologia di reato viene smontato facilmente, anche per le contraddittorie deposizioni dei testimoni; quello più insi­dioso riguardante la «propaganda comunista» non trova riscontri definitivi  e la sentenza è perciò di assoluzione per insufficienza di prove. Bonelli non può però evitare di essere sottoposto dall’autorità di polizia a due anni di ammonizione. Nel corso della perquisizione nella sua casa romana, tra le sue carte, era stato, infatti, trovato il Programma del sesto con­gresso dell’Internazionale comunista, tenutosi a Mosca nel 1928. Il testo è in francese e perciò non può essere considera­to come materiale di propaganda, ma depone tuttavia a sfa­vore della lealtà del giovane ragioniere nei confronti del regi­me.

Il provvedimento, che corrisponde a una sorta di libertà vigilata, risospinge Bonelli nell’isolamento politico e gli nega la possibilità di riagganciarsi ai fili sotterranei della rete orga­nizzativa comunista romana. C’è però una laurea da prendere: in un paio di anni gli esami della facoltà di economia e com­mercio vengono affrontati e superati. La tesi viene discussa il 22 novembre  1932, è  un’articolata  analisi  del primo piano quinquennale  sovietico,  e nonostante  la delicatezza politica dell’argomento  il giudizio  della commissione esaminatrice è positivo. Nello stesso anno, Bonelli  incorre in una strana e pericolosa disavventura: viene avvicinato da uno sconosciuto, forse un provocatore, che gli propone di entrare in contatto con il proprietario di una barca a motore che avrebbe potuto farlo espatriare; accetta un po’  titubante, si presenta  all’appunta­mento fissato,  ma trova ad aspettarlo la polizia. Viene ferma­to per venticinque giorni, al termine dei quali si ritrova libero senza una parola  di spiegazione e senza che l’ammonizione, appena scaduta, gli venga rinnovata. Eppure è questo il perio­do nel quale egli è riuscito finalmente a ricostruire un piccolo collettivo  politico,  impegnato   essenzialmente in un’attività autoformativa: appena poco più che una testimonianza di osti­nata fede politica.

Il tempo della quiete sta però volgendo rapidamente alla fine. L’ultimo atto normale di una vita che ha già scelto di essere spesa per la realizzazione di un sogno politico, è il ser­vizio militare che Bonelli svolge in un reggimento di artiglieria di Lecce. Guardato con sospetto e destinato alle mansioni più umili per la sua qualifica di «sovversivo», incontra un’ina­spettata protezione in un tenente, Roberto Rendina, che dieci anni dopo finirà fucilato alle Fosse Ardeatine. Al momento del congedo, di fronte alla scelta se tornare a Roma o ricongiun­gersi con la famiglia che è rientrata a Milano, decide per que­sta seconda soluzione. E’ il settembre del 1934, il movimento comunista internazionale, abbandonata la folle utopia della rivoluzione imminente e l’altrettanto folle teoria del «socialfa­scismo», si prepara alla «svolta» della politica dei fronti popo­lari, della ricerca, cioè, dell’unità tra i partiti comunisti e le forze democratiche europee contro il fascismo. Per Bonelli è un anno di grandi incontri. Conosce Ferruccio Parri, il futuro capo della Resistenza, entra in familiarità con Ugo La Malfa che lo aiuta a trovare qualche collaborazione professionale, il suo giro di amicizie politiche si fa più largo: si tratta di gente che non ha scelto la clandestinità, ma che vive più o meno normal­mente utilizzando gli spazi semilegali che il regime è costretto (e disposto) a concedere negli anni del massimo consenso. Spesso è un vero e proprio gioco degli equivoci. Come quello arrischiato dal circolo, diretto da due ex sindacalisti riformisti ormai in rotta con il sindacalismo antifascista, Rinaldo Rigola (il fondatore e primo segretario nel 1906 della CGIL) e Giovanni Maglione, che Bonelli prende a frequentare.

Il nome del circolo è ANS  «Problemi del lavoro», che ufficial­mente dovrebbe leggersi «Associazione Nazionale di Studi», ma che per gli affiliati è da intendersi «Associazione Nazionale Socialista». Proprio a questa associazione Bonelli propone un ciclo di conferenze sul primo piano quinquennale sovietico, l’ul­tima delle quali, dedicata al rapporto tra progresso industria­le e sviluppo dell’apparato  militare russo, cade casualmente il primo agosto del 1935. Il primo agosto non è però una data come un’altra, in quella giornata, infatti, i socialisti e i comunisti, nella  ricorrenza  della  dichiarazione di guerra della Germania alla Francia e alla Russia nel 1914, sono soliti organizzare manifestazioni pacifiste. La coincidenza non è per­ciò creduta casuale dalla polizia e Bonelli, insieme con gli altri componenti del gruppo, viene arrestato e tenuto in prigione per venticinque giorni. Scarcerato, gli viene comminata una nuova ammonizione della durata di due anni.  Il prefetto  di Milano lo comunica al Ministero dell’Interno il 2 gennaio 1936 con una nota in cui, dopo aver ricordato che Bonelli frequentava l ‘as­sociazione «che in questi ultimi tempi era uscita dalla sfera culturale e svolgeva propaganda ed attività sovversiva» , e che una perquisizione nella sede aveva permesso di ritrovare mate­riale di propaganda clandestina comunista e socialista, aggiunge qualche dettaglio sui temi trattati nelle conferenze. Scrive il prefetto: «Il Bonelli, inoltre, nelle dissertazioni che svolgeva  alla  sede  dell ‘ANS sul piano  quinquennale  russo, autorizzatone dal segretario dell’Associazione Maglione Giovanni, pure egli ammonito, non si limitava alla nuda espo­sizione di dati statistici e risultati industriali ed economici più o meno raggiunti, ma ne traeva argomento per esaltare e fare l’apologia del sistema bolscevico, talché veniva a svolgere opera di propaganda politica».

Frequentando il circolo dei sindacalisti, Bonelli si è illuso, forse , di poter mantenere fede alla propria promessa di impe­gno politico e di assicurarsi, nello stesso tempo, un lasciapas­sare per rientrare nella vita normale. La dura replica dell’ar­resto gli conferma che questo non è possibile, che non si può tornare indietro, che la scelta, già compiuta, è definitiva. Se il cerchio ormai si è stretto egli non fa nulla per forzarlo: comin­ciano i giorni della cospirazione, ossessionati dalla ricerca di contatti, di nuovi proseliti, di giovani da preparare  al compito di rivoluzionari di professione. Non giunge inaspettato, perciò, il nuovo e definitivo arresto, il 4 agosto 1936, quando i suc­cessi del Fronte popolare in Francia e della resistenza anti­franchista in Spagna fanno temere al regime una possibile ripresa dell’attività antifascista anche in Italia. A Milano gli arrestati sono una settantina,  molti di essi vengono rilasciati subito; diciassette, tra cui Bonelli e la sua donna di allora, Giuseppina Callegari, vengono invece avviati al confino, alcu­ni alle Tremiti, altri a Ventotene, la donna a Ponza.

Prima alle isole Tremiti, poi a Ventotene

La prima destinazione di Bonelli è alle Tremiti, nell’isola di San Nicola, l’unica delle tre dell’arcipelago abitata dai prigio­nieri. Ci arriva con la fama  di irriducibile avversario del fasci­smo. Il prefetto di Milano, in una nuova nota indirizzata alla Direzione generale di pubblica sicurezza, il 19 ottobre 1936, informa che al giovane sono stati comminati cinque anni di confino di polizia «per avere esplicato attività sovversiva», e subito dopo si addentra in una descrizione di tale attività. «E’ risultato che il Bonelli – precisa la comunicazione – capace e audace organizzatore, pertinacemente radicato alle ideologie politiche estremiste, è un instancabile propagandista, compito nel quale riesce brillantemente per la sua intelligenza e la sua cultura (è laureato in scienze economiche e commerciali e pre­sentò come tesi di laurea dal titolo “il primo piano quinquen­nale russo”) . Con la sua attività intendeva creare intorno a sé una cellula comunista, tenendosi in relazione anche con ele­menti dell’antifascismo milanese con fini di proselitismo. Risulta inoltre che ricevette stampa comunista da De Micheli Mario e che era in rapporti di natura politica col noto comuni­sta Nicola Giovanni, espatriato clandestinamente». Non sorprende, quindi, l’allarme dei responsabili della colo­nia delle Tremiti che fanno richiesta di un rafforzamento della dotazione di armi: «Occorre fornire – scrive il prefetto di Foggia cui è assegnato il compito della sorveglianza, all’inizio del febbraio  1937 – almeno due mitragliatrici ai carabinieri [ …]. E’ bene tenere presente che attualmente vi sono a Tremiti due forti nuclei di sovversivi, il primo di Milano con a capo il dr. Alfredo Bonelli e l’altro  di Trieste con a capo Nicola Chimisso, che, legati fra loro, fanno mensa comune e che danno non poca preoccupazione essendo composti da gente decisa a tutto». Per non trovarsi di fronte a sorprese e per tranquillizzare il direttore del confino delle Tremiti, un mese dopo Bonelli viene trasferito a Ventotene, e anche da qui non tarda a partire il solito, allarmato dispaccio inviato al Ministero dell’Interno: «La regia Prefettura di Littoria [ …] informa che, secondo quanto riferito dal Direttore della Colonia di Ventotene, il confinato in oggetto durante la permanenza in Ventotene si è addimostrato tenace, convinto e pericoloso comunista. E ‘ uno dei peggiori esponenti del gruppo, e per il suo grado di cultura e la sua professione sociale gode di una grande ascendenza sugli altri comunisti. Viene attentamente vigilato e sovente pedinato. Verso le autorità mantiene conte­gno indiffèrente». E ‘ il 1937, Bonelli rimarrà a Ventotene per oltre sei anni, fino al 22 agosto 1943.

Sono anni decisivi per la sua formazione politica, per il suo modo di stare nel partito e di intendere i doveri della militan­za. Una parte importante del suo destino personale e politico matura nelle grandi camerate di Ventotene, nei conciliaboli rapidi di quelle giornate, nell’ossessiva ripetitività delle ore trascorse a immaginare l’ordine nuovo che avrebbe dovuto cambiare presto l’Italia ed il mondo. A Ventotene fa tappa tutto l’antifascismo italiano, gran parte di quella che sarà la classe dirigente della Repubblica. L’afflusso diventa partico­larmente imponente nel 1939, quando la chiusura del confino «principe» di Ponza (il più importante fino ad allora per le personalità che vi si trovavano costrette) assegna a Ventotene il ruolo di preminenza. Basta leggere i nomi d ei confinati: Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Pietro Secchia, Girolamo Li Causi, tra i comunisti, Sandro Pertini e Eugenio Colorni, socialisti, Altiero Spinelli, ex comunista e poi azionista, che nell’isola scriverà con Ernesto Rossi il famoso «Manifesto» che lancerà la profetica idea del federalismo europeo. Nel confino, quando Bonelli arriva, è in atto uno scontro furioso all’interno del partito comunista. E ‘ il riflesso delle lotte che periodica­mente scuotono il movimento comunista internazionale e che, a successivi cerchi concentrici, giungono a devastare le cellule più lontane e disperse. Nel 1936 è arrivato nell’isola anche Giovanni Roveda, con il prestigio di dieci anni di galera già alle spalle. Diventa il capo indiscusso dei comunisti confinati e, dopo un ulteriore arresto che lo convince ad intensificare le precauzioni cospirative, rimodella per intero l’organizzazione del partito, restringendone gli aderenti ai più provati e fidati e sostituendo al tradizionale raggruppamento per cellule di tre compagni un collegamento lineare in base al quale ciascun militante è il semplice anello di una catena che ha il solo com­pito di ricevere la parola d’ordine dell’anello superiore e tra­smetterla a quello inferiore. Bonelli è tra i prescelti ma, evi­dentemente, la sua capacità di portatore di messaggi non è considerata del tutto soddisfacente se Roveda non nascon­derà, successivamente, la sua diffidenza nei confronti del forse troppo autonomo compagno. Nel 1938, Bonelli rimane vittima di una delle tante provocazioni imbastite dai sorveglianti. Insieme con un altro confinato, Paolo Antonini, viene, infatti, denunciato, il 23 marzo, – come spiega una scheda timbrata dalla Prefettura di Littoria – «per violenza privata e lesioni in persona di altro confinato al fine di impedirgli un eventuale ravvedimento politico». L’episodio è completamente inven­tato, la stessa presunta vittima si rifiuta di sottoscrivere la denuncia e il Tribunale di Napoli, il 26 agosto, non può che assolverlo, sia pure ricorrendo all’insufficienza di prove. Viene condannato, però, a quattro mesi di arresto «per contravven­zione agli obblighi di confino»: è una misura che non cambia nulla, perché Bonelli di mesi di reclusione ne ha già scontati cinque al momento della sentenza, tutti passati a Poggio Reale. E’ il periodo nel quale più acuto prorompe il sentimen­to dell’inutilità, del tempo immobile e inesorabile che addor­menta con una malìa i cambiamenti e consuma la vita. Il car­cerato Bonelli impara che la disperazione si combatte con i piccoli riti, con le lucide, paranoiche, strategie che fissano in un atto, in una parola, in uno scongiuro ogni possibilità di sal­vezza. Capovolge i libri per impedire che la lettura finisca trop­po presto; costruisce sull’abbacinante davanzale della cella microscopiche abitazioni di cera, nelle quali, infaticabile orga­nizzatore di città future, tenta di sospingere il popolo di for­miche che gli fa compagnia.

A Ventotene, a partire – come già ricordato – dal 1939 si intensificano gli arrivi. Dopo i grandi politici trasferiti da Ponza, approdano alla colonia confinaria, nel 1941, i combat­tenti repubblicani della guerra di Spagna, avviati in Italia, dopo un periodo di internamento in Francia nel campo di con­centramento di Vernet, dal regime collaborazionista di Vichy; negli stessi mesi si aggiungono alla schiera prigionieri albane­si e jugoslavi che saranno, più tardi, l’anima della Resistenza europea. Risale a  questo periodo l’incontro di Bonelli con Sandro Pertini, verso il quale i comunisti confinati nutrono prevenzioni per le sue iniziative impreviste, per quello, cioè, che viene censurato come eccessivo protagonismo. Bonelli è testi­mone di un episodio che dice molto del carattere, anche politi­co, di Pertini.

«A Ventotene – scrive Bonelli – esisteva un gruppetto di con­finati costantemente seguiti, per disposizione del Ministero, da un milite fascista a “distanza d’orecchio”, cioè quasi alle cal­cagna: uno di questi era Pertini. L’isola si trovava sempre bat­tuta dai venti, e in gennaio il clima diventava infernale: freddo, con continue piogge torrenziali  accompagnate da raffiche rabbiose. Uno di quei giorni, dovendo recarmi presso il came­roncino speciale per TBC dove stava alloggiato Pertini, lo tro­vai tutto esagitato mentre si stava vestendo per uscire.  “Ma come – gli feci – esci con questo inferno? Ma lo sai che non c’è in giro anima viva?” “Si – rispose lui – si, certo, ed è proprio per questo che esco. Perché quello lì (si riferiva al milite che lo pedinava)  ha avuto l’impudenza di affacciarsi  alla mia came­ra per controllare se stavo dentro. Così mi metterò a cammi­nare su e giù per mezz’ora e lui sarà costretto a seguirmi e a inzupparsi fino alle midolla“.  (Pertini,  di  sobria  eleganza  e distinto per natura, aveva anche lui familiari e amici che pote­vano: era perciò completamente attrezzato contro la pioggia, dalla testa ai piedi, mentre il milite portava la normale, gros­solana, divisa di panno, con mollettiere di stoffa e scarponi d’ordinanza)».

Il 4 dicembre 1941 scade finalmente per Bonelli il periodo di confino. Non viene però rimesso in libertà, perché lo stato di guerra, dichiarato dall’Italia l’anno precedente, sconsiglia di tenere in circolazione un elemento la cui attività potrebbe con­tribuire a minare la compattezza del «fronte interno». Da con­finato Bonelli diventa perciò «internato», una condizione che gli permette di avere una licenza per andare a Milano dalla madre, con la scusa di dover sistemare alcune questioni rela­tive all’eredità   lasciata dal  padre, morto  nel 1936. Quest’occasione, cercata esclusivamente per  la ·privatissima esigenza di  trovare un momento di intimità familiare  dopo anni di durezze fisiche e morali, diventa un caso politico.

I compagni di Ventotene lo cercano per affidargli messaggi da portare alle mogli e agli amici, ma Roveda, il capo, gli proi­bisce di accettarli: a Milano, questa  è la volontà del partito, dovrà limitarsi a incontrare un dirigente, Milanesi, per comu­nicargli che un altro dirigente, Ferro – reduce anche lui dal con­fino  e ormai molto attivo in clandestinità – si muove troppo e «non è chiaro il perché». Nel linguaggio cifrato dei comunisti dell’epoca è l’annuncio di una diffida e l’invito all’emargina­zione del dirigente troppo intraprendente. Bonelli recapita il messaggio, che provoca sconcerto nei destinatari: <<Si tratta di una diffida?» domandano, senza ottenere risposta: Roveda ha intimato di non dire di più. La casa della madre di Bonelli si trasforma ben presto nel luogo più ricercato dagli antifascisti milanesi: tutti hanno qualcosa da chiedere e da comunicare, per tutti il reduce da Ventotene è il prezioso testimone che può rassicurare, ravvivare speranze, rafforzare legami che la lonta­nanza potrebbe avere fiaccato. A tutti Bonelli è costretto a replicare con il silenzio: comportarsi diversamente equivarreb­be a un atto di insubordinazione contro il partito, o contro Roveda, che è la stessa cosa. Il divieto di contatti riguarda, però, esclusivamente i membri del partito, non coinvolge gli altri. Bonelli accetta, perciò, la richiesta che gli viene fatta da Ursula Hirschmann, moglie del socialista Colorni, allora in clandestinità, di portare al suo amico Altiero Spinelli, confi­nato a Ventotene, un pacco di viveri. Quest’atto gli procurerà una reprimenda da parte di Roveda, che gli spiegherà che un ex comunista come Spinelli non deve essere avvicinato e che un rivoluzionario di professione deve sempre tenere presente come tutte le sue azioni, anche quelle private, siano in realtà politi­che e abbiano bisogno perciò dell’approvazione del partito. Per Bonelli è questo il momento in cui percepisce forse per la prima volta una mancanza di sintonia tra i suoi sentimenti e gli obblighi rivoluzionari, per Roveda è, invece, la conferma che quel compagno non è affidabile.

Il 25 luglio 1943 il fascismo cade, ma ci vorrà quasi un mese per convincere il nuovo capo del governo, Pietro Badoglio, a rimettere in libertà i confinati  di Ventotene. La mattina del 22 agosto, con l’ultimo gruppo di prigionieri, Bonelli in motonave lascia l’isola: il partito ha voluto che lui, per la parte amministrativa, e Girolamo Li Causi, per la parte politica, sovrintendessero, fino alla fine, alle operazioni di eva­cuazione.

 

Gino Conti segnaletiche

Le foto segnaletiche di Alfredo Bonelli nel 1935, all’Archivio di Stato.

I mesi in Ciociaria

Quel che accade dopo ce lo racconta la «Memoria» che pub­blichiamo in queste pagine. E’ uno scritto che spiega per quali vie Bonelli sia arrivato in Ciociaria, nell’ottobre del 1943, e quale sia  stata  l’attività svolta  nei  mesi  successivi, fino  al marzo del 1944. Sappiamo ormai, dunque, chi è il misterioso Gino Conti che si incontra con il gruppetto di giovani cattoli­ci di Alatri che intorno al loro giornale, «Libertà», stanno ten­tando, come scriverà qualcuno di loro più tardi, di «fare qual­cosa» contro i fascisti e contro l’esercito tedesco che occupa la città. E’  un militante politico,  reduce da Ventotene, abi­tuato alla clandestinità e alla cospirazione, convinto che un comunista, dovunque si trovi, ha il dovere di mettere in piedi una cellula del partito e che, per raggiungere quest’obiettivo, ogni sacrificio debba ritenersi accettabile. Sappiamo anche, però, che sotto l’adesione apparentemente senza riserve alle liturgie  comuniste  –  ulteriormente  inasprite  dalle  esigenze cospirative  –  c’è un carattere piuttosto  indipendente che, di tanto in tanto, detta le sue condizioni, impone le sue scelte. L’episodio del pacco viveri ad Altiero Spinelli, ricordato prima, è significativo di questo atteggiamento per il quale un ordine del partito è da accettare senza discussioni, ma consente mar­gini di interpretazione, adattamenti alla situazione di fatto, aggiustamenti critici lasciati alla valutazione del militante. Bonelli, del resto, non ha avuto, fino a quel momento, l’oppor­tunità di vivere un’esperienza politica normale: il suo punto di riferimento è stata un’organizzazione costretta alla clandesti­nità, con collegamenti assai labili, con contatti improntati all’occasionalità: e che per sopravvivere ha avuto perciò biso­gno non solo di disciplina, ma anche e soprattutto di capacità di ini­ziativa dei singoli, dispersi, compagni. Educato a questa scuo­la, Bonelli conserva e sembra talvolta quasi ostentatamente voler difendere il privilegio della scelta, il diritto all’ultima parola . E ‘ proprio in nome di questo diritto che egli decide di venire in Ciociaria. L’altra possibilità sarebbe quella di rima­nere a Roma, dove, approdato da Ventotene, ha ritrovato il suo leader del confino, Roveda, impegnato, tra l’altro, nell’in­carico – il primo di emanazione governativa concesso a un comunista – di commissario dei sindacati. L’offerta di lavo­ro politico che Roveda gli presenta, però, non lo soddisfa e pre­ferisce, perciò, far di testa sua. Di testa sua farà anche, qual­che settimana più tardi, quando, sulla base di un indiretto e tenue assenso da parte del centro del partito, individuerà il suo compito in Ciociaria nell’organizzazione della Resistenza e nella costruzione del partito comunista. Da quel momento si può dire che cominci la nuova, lunga, lotta di Bonelli per otte­nere il riconoscimento del suo «esserci stato». Magari anche contro, o nell’indifferenza, del partito.

La «Memoria», rispetto a quanto già sappiamo della storia della Resistenza ciociara, aggiunge qualche particolare inte­ressante su fatti intorno ai quali si era avuta finora notizia superficiale. La presenza di partigiani jugoslavi nel campo di internamento di Fraschette, il loro collegamento con l’organizzazione comunista romana, la loro disponibilità ad intraprendere, così come tanti altri loro connazionali faranno  in altre parti del nostro paese, azioni militari contro tedeschi e fasci­sti, dicono, per esempio, che il quadro delle forze antifasciste in campo in questa parte  della provincia  di Frosinone è più composito di quanto si sia finora comunemente  ritenuto. Preziose sono, inoltre, le informazioni sulla sorda lotta politi­ca che si accende tra le varie componenti del movimento anti­fascista  in vista degli assetti politici futuri. E’ un aspetto, que­sto, solitamente  trascurato in nome della retorica dell’unità contro il fascismo,  ma che tuttavia dimostra, sia pure  a con­trario, la maturità dei protagonisti  di quegli anni, primo fra tutti quell’Angelo Menicucci che è il vero cervello politico del movimento e nel quale Bonelli riconosce immediatamente l ‘in­terlocutore,  l’alleato-competitore  che sa, quanto lui, che le mosse di quel momento servono già a condizionare un tratto importante di futuro. Un contributo di conoscenza più interes­sante che arriva dalla «Memoria» riguarda le modalità della ricostruzione dell’organizzazione comunista nel frusinate, o perlomeno in quella vasta zona che parte da Fiuggi e giunge fino a Ripi. In un discorso, tenuto per la celebrazione del tren­tesimo anniversario della fondazione della Federazione comu­nista di Frosinone, Tullio Pietrobono, uno dei giovani recluta­ti da Bonelli che poi guiderà il partito provinciale dal 1947 al 1959, ricorda così le «origini»: <<Le prime iniziative per la rico­stituzione del Partito nella nostra Provincia risalgono al set­tembre-ottobre 1943, quando un compagno inviato dal Centro di Roma prese contatto con alcuni compagni jugoslavi, confi­nati da anni al campo di concentramento delle Fraschette di Alatri, e con essi per breve tempo svolse un lavoro propagan­distico cercando di riannodare le fila dell’antifascismo della zona; subito dopo, mentre già infuriava l’oppressione tedesca, nel novembre 1943 questo compagno stabilì un contatto per­manente con il compagno Domenico Marzi e con il compagno Serafino Spilabotte, i quali si collegarono subito con altri com­pagni dei paesi vicini». Del «compagno inviato dal Centro di Roma» non si rivela il nome, ma non si può fare a meno di ricordarne l’impulso decisivo dato all’opera di riorganizzazione. Più avanti, nel discorso, Pietrobono auspica che si faccia ogni sforzo per sollecitare una ricostruzione storica più approfondi­ta di quel momento «per fare emergere non solo i fàtti politici nella loro successione cronologica, ma per esaminarne l’intima essenza [ …] ». Intanto sarebbe bastato, forse, dare un nome e un cognome al misterioso «compagno» inviato dal Centro, e aggiungerne qualche altro che sorprendentemente manca, come quello di Raul Silvestri. Nel 1975, però, Silvestri ha già abbandonato il partito da dodici anni ed è ancora tanto viva la ferita di questo strappo da impedire che quel nome venga citato in un’assise pubblica, e Bonelli è Gino Conti, cioè uno pseudonimo, cioè niente, e tanto vale allora che nemmeno venga menzionato. Anche perché, ad indagare ulteriormente, si scoprirebbe che la presenza in Ciociaria di Bonelli è frutto più di una sua scelta personale che di una volontà centrale del partito, e che perciò i primi passi della rinata organizzazione comunista ciociara si devono al volontarismo di un militante, forte di null’altro che della sua convinzione «leninista» che dove c’è un comunista là c’è pure il partito, anche se il partito non lo sa.

Allora nessuno sospetta che da anni Bonelli ha ingaggiato una sua testarda battaglia per vedere riconosciuta la sua atti­vità di quel periodo. Tutti quelli che potrebbero confermarla, infatti, sembrano aver tracciato un segno sul suo nome, depen­nandolo dai capitoli dei loro ricordi. Quando c’è, il nome è Gino Conti, un nome di fantasia, paradossalmente scelto da Bonelli solo perché tanto comune da non suscitare interroga­tivi pericolosi. La «Memoria» è un momento di questa disperata lotta per riempire i vuoti e restituire nettezza agli avvenimen­ti, con ciò riassegnando la dignità di un ruolo a un uomo che ha legato gran parte del valore della sua esistenza all’identità di rivoluzionario di professione. La verità che Bonelli vuole ristabilire è quella che dimostra che la sua presenza di pochi mesi in Ciociaria non è stata un’evasione, una fuga, o una pausa dalle sue responsabilità di dirigente politico: qualcosa che si possa tranquillamente derubricare negli angusti confini della dimensione privata. Ed è una verità che egli non si stan­ca di ripetere, non tanto in nome dell’uomo che è diventato oggi, ma nel rispetto di ciò che è stato per un’intera, lunga sta­gione della sua vita nella quale ha negato rilievo a ogni altra esigenza che non fosse quella politica; perché comunista si diventa – scrive Altiero Spinelli – «come si diventa prete, con la consapevolezza di assumere un dovere e un diritto totali, di accettare la dura scuola dell’obbedienza e dell’abnegazione per ben apprendere l’arte ancora più dura del comando; deciso a diventare quel che il fondatore  dell’ordine, Lenin, aveva chia­mato il rivoluzionario professionale».

In un ultimo elemento, infine, solo apparentemente secon­dario, Bonelli confida per diradare la nebbia che copre la sua presenza in Ciociaria: l’aspetto fisico, la diversità di quel Gino Conti così fuori dalla norma da risaltare vivo nella mente di chi incontra e da suggerire l’impressione che si tratti di uno straniero. A distanza di anni, su questo insistono ancora i testimoni del tempo. E sembra che solo questo, alla fine, deponga risolutivamente per l’identificazione di Gino Conti con Alfredo Bonelli e per confermare quindi che l’avventura di quei mesi tra il ’43 e il ’44 non è stata il sogno di un sogno collettivo.

Il ritorno a Roma e poi tesoriere dell’Oro di Dongo

Lasciata la Ciociaria, Bonelli rientra a Roma e si ricollega all’organizzazione comunista della capitale. Gli viene affidata una missione a Milano e la «Memoria» si conclude al momento dell’arrivo nel capoluogo lombardo, quando, con un nuovo nome di battaglia, Sant’Ambrogio, si presenta  dove è atteso. A Milano accadono due fatti che segnano la sua vita futura: conosce e sposa Ivanka Pirc, una partigiana che fa da corrie­re per il Triumvirato di insurrezione ligure, figlia di un ferro­viere sloveno del territorio di Trieste trasferito d‘autorità prima ad Avellino e poi a Genova dal regime fascista, nel­l’ambito della politica di integrazione di quelle popolazioni. E accetta l’offèrta di Secchia di diventare tesoriere del PCI dell’Italia occupata.  «Due – ricorda oggi Bonelli – furono  le fonti del finanziamento al partito. La prima consistente nella grande sottoscrizione che promuovemmo per raccogliere cento milioni, necessari per far funzionare la nostra struttura. La seconda derivante, invece, dai cosiddetti – recuperi: in parole semplici, i soldi e i preziosi che i partigiani sequestravano ai fascisti e ai tedeschi in fuga e che, in una certa misura, consi­deravamo come risarcimenti delle perdite che il fascismo aveva procurato al movimento socialista e comunista. Basta ricor­dare la fine che aveva fatto quel patrimonio di sezioni, tipo­grafie, giornali, camere del lavoro messo in piedi dal Partito Socialista tra il 1892 e il 1922, costruito coi centesimi degli operai e gestito con gelosa parsimonia e poi interamente bru­ciato, devastato, disperso, confiscato dalle squadracce e dal regime» . Nelle mani di Bonelli finisce anche parte di quell’oro di Dongo, il tesoro di monete e gioielli che i partigiani seque­strarono a Mussolini e agli altri gerarchi in fuga, sul quale, negli anni seguenti, si innescò un vero e proprio giallo politico­-finanziario che nemmeno un processo, tenuto a Padova nel 1957, riuscì a chiarire del tutto. Bonelli, nella sua autobiogra­fia, ridimensiona la vicenda: il tesoro finito nelle mani dei par­tigiani sarebbe stato ben poca cosa, 30 milioni di lire italiane di allora e 36 chili d ‘oro di pessima lega, subito affluiti nelle casse del PCI e investiti per acquistare alcuni edifici a Milano. Sull’episodio, come è noto, esistono testimonianze d ‘altro teno­re e il percorso dell’accertamento della verità è stato costella­to di morti misteriose, compreso il suicidio del giudice popola­re che, mai sostituito, impedì la conclusione del processo pado­vano. Ma per Bonelli, che pure è spietato nell’analisi del suo passato, l’oro di Dongo è poco meno che una gigantesca balla inventata per mettere sotto accusa il PCI,  indiziato di essersi appropriato di beni che sarebbero dovuti essere conse­gnati all’erario dello Stato. Una manovra politica che metterà in discussione tutti i «recuperi» dei partigiani e le cui conse­guenze lo stesso Bonelli, nel 1954, tre anni dopo essersi dimes­so dal partito, subirà con un processo intentatogli a Novara con l’imputazione di «ricettazione».

In Jugoslavia contro Tito

Il  matrimonio  con  la partigiana  slovena  – da cui  avrà  un figlio  – apre una nuova stagione della sua avventura di  «rivo­luzionario di professione» . Dopo  la decisione  di trasferirsi  in Ciociaria, è la seconda volta che Bonelli affronta di petto  il suo destino.  In  Italia  il partito  sembra  non  aver  bisogno  di  lui: tesoriere, poi  amministratore  in una scuola  quadri rigidamen­te stalinista, poi,  ancora, funzionario   in una Camera del lavo­ro con la responsabilità della contabilità nel sindacato di cate­goria  degli  edili. E’  un lento cammino  all’indietro,  un imper­cettibile ma inesorabile stemperarsi  di una scelta politica,  che si era pensata e voluta eroica, assoluta, nel quotidiano e delu­dente  esercizio  di  un  lavoro  da  burocrate senza passioni e senza emozioni. Negli stessi giorni della sconfitta elettorale del Fronte popolare,  nell’aprile del 1948, i suoceri e la moglie col­gono l’occasione offerta da una legge che consente a coloro che si  trovino  nella  loro posizione  di  emigrati  contro  la propria volontà  di  optare per  la  cittadinanza jugoslava   e  il  ritorno nella  terra d ‘origine. Lasciano perciò  l’Italia e si stabiliscono a Rijeka, il nome slavo di Fiume. Due mesi più  tardi, nel giu­gno,  una risoluzione del Cominform – l’organismo creato l’an­no  prima da Stalin in sostituzione della defunta Terza Internazionale  –  condanna  le  «deviazioni»  del  nuovo Stato jugoslavo e apre la lotta contro il  «titoismo», chiamando i partiti comunisti  di  tutti i paesi  a condividere  la scomunica.  Per Bonelli  è  l’apertura  di  uno  spiraglio,  la prospettiva di una nuova opportunità per  rinnovare il suo impegno rivoluzionario. Decide  così,  nel  novembre,  di  trasferirsi  a Rijeka: certo, per ricongiungersi con il resto della famiglia  ma soprattutto – que­sta  è almeno  la  ragione  che gli permette  di  non sentirsi un disertore – per diventare agente del Cominform in missione con­tro  il   «degenerato»   gruppo   dirigente  comunista  jugoslavo. Come cinque anni prima, al momento di lasciare Roma e diri­gersi  in Ciociaria,  manca  il viatico  ufficiale  del partito. Una lettera di Luigi Longo  lo autorizza al  trasferimento, ma non è la  consegna affidata  a  un  militante. Bonelli  il  suo obiettivo politico  se  lo  assegna da  solo: se  è  vero,  come  dice  Radio Mosca, che in Jugoslavia si è insediata al potere  una classe di burocrati e che la popolazione è sul punto di ribellarsi per riportare il partito jugoslavo nell’ortodossia staliniana, non c ‘è altro da fare che organizzare questa ribellione aderendo – o fondandolo se non c’è – a un gruppo cominformista che ne prenda la guida. «Fantasogno jugoslavo», definisce Bonelli nelle pagine dell’autobiografia che raccontano il disvelarsi progressivo del grande inganno – quell’insieme di mistificazione, illusione, tradimento ideologico e morale che gli si apre davanti giungendo nella città del suo ultimo viaggio da rivoluzionario di professione.

Nulla di quanto scritto sulla stampa comunista ortodossa corrisponde a quello che gli capita di vedere con i suoi occhi o di apprendere dal racconto dei familiari. Il suocero, Ivan Pirc, non sa darsi pace. «Ho letto io – grida – le corrispondenze sulla Jugoslavia de l’Unità di Genova e conosco personalmente il compagno corrispondente. Ma dove ha mai visto le fabbriche, i negozi, i paesi che ci ha descritti. Dove ha mai incontrato le persone con cui diceva di aver parlato? Se un giorno lo dovessi incontrare lo inviterò nel bosco con la pistola». E’ anche in base a quelle corrispondenze, infatti, che l’anziano ferroviere sloveno ha deciso di optare per la nazionalità Jugoslava e lo infiamma d’ira l’idea di essere un comunista tradito da comunisti. Non è vero che la crisi, le difficoltà, la penuria siano attribuite dalla popolazione al progressivo distacco di Tito da Stalin, alle «deviazioni nazionalistiche» tanto condannate dal Cominform. Bonelli coglie sul nascere il processo di formazione di quella nuova classe di burocrati che, più tardi, un dissidente jugoslavo – un tempo compagno d’armi del maresciallo Tito, Milovan Gilas – definirà, con termine divenuto universale, «la nuova classe». C’è una lotta tra due comunismi, l’uno sovietico e l’altro nazionale, ma nel nome di nessuno dei due gli jugoslavi che Bonelli incontra sembrano disposti a scatenare crociate. Lui no. Lui guarda, osserva, invia, con rischiosi stratagemmi, descrizioni esatte della situazione ai compagni italiani che, a loro volta, dovrebbero informarne il Cominform, ma non deflette dall’idea con la quale è arrivato: ristabilire il credo cominformista e ricondurre il partito jugoslavo sulla retta via internazionalista. E’ questo il dovere del rivoluzionario. Perché? Quando Bonelli accetterà di porsi questa semplice domanda, che dovrebbe scuoterci sempre ogni qual volta le certezze ci paiano tanto solide da non aver più bisogno di prove, il suo cammino di rivoluzionario di professione sarà ormai arrivato alla fine. In Jugoslavia ancora no. C’è il tempo per azioni dimostrative con volantinaggi, c’è modo per costruire una piccola rete di collaboratori clandestini, fino al giorno dello smascheramento e dell’arresto. E’ il gennaio del 1950. Dopo sei mesi di galera e di interrogatori nei quali, aderendo abilmente alla medesima logica dell’inquisitore, si trincera dietro l’immunità garantita dall’aver agito per rispettare la disciplina del proprio partito, viene espulso e riaccompagnato alla stazione per il rimpatrio. «Dopo sei mesi di cella – scrive – mi sentivo abbagliato dal sole, stordito dallo spazio aperto, intronato per il traffico e la folla. Alla stazione una quantità di sloveni che arrivavano in ferie scendendo da un treno proveniente da Lubiana, con tanti bambini biondi dagli occhi azzurri, proprio come il mio. Una struggente nostalgia mi attanagliò il cuore. Per la prima volta mi sentii vacillare dentro di me e allagare dal senso dell’irreparabile. Poi, dal treno, la sfilata dei luoghi divenuti a me tanto familiari: il magazzino ferroviario dove lavorava Ivan Pirc, il gruppo di case dove stava la mia, la superstrada in costruzione dove tenevo le conversazioni con Del Pont [un giovane dell’organizzazione cominformista, ndc]. Addio Rijeka, addio. Addio a tutti, addio per sempre, addio. Davanti ai miei occhi la vita continuava, e sarebbe continuata ignorando noi e il nostro inutile messaggio. La sensazione di essere “un diverso mi soffocava: sentivo montare in me la nostalgia che stroncava le forze e l’angoscia dell’irreparabile».

Dopo la sosta in alcune prigioni italiane, rientra finalmente a Milano. Lì, a casa della madre, ritrova le diecimila lire conservate per i tempi grami e cerca di riannodare i rapporti con il partito. Scopre che gli innumerevoli dispacci, inviati con corrieri segreti nei mesi precedenti, nei quali aveva descritto con verità la realtà jugoslava perché il Cominform ne prendesse atto, non sono stati conservati da nessuna parte e meno che mai sono stati fatti conoscere. Informa i dirigenti del PCI che numerosi compagni italiani sono ancora rinchiusi, in condizioni durissime, nelle carceri jugoslave e chiede impegni per aiutare loro e le loro famiglie.

La copertina della "memoria" di Alfredo Bonelli alias Gino Conti

Dopo il ritorno in Italia, la doppia negazione

Si trova di fronte ad atteggiamenti imbarazzati, il PCI non ha voglia più di tanto di inserirsi nella disputa che divide Tito da Stalin e non vuole dare l’avallo a compagni che, prendendo alla lettera la solidarietà internazionalista, si sono spinti pericolosamente oltre le liturgiche attestazioni di fedeltà al Piccolo Padre sovietico. E’ l’ultima battaglia che Bonelli combatte e perde. Nel 1951, anticipando l’espulsione che sente vicina, e per evitare il crudele rito della menzione di indegnità su l’Unità, si dimette dal partito e viene, subito dopo, licenziato dalla società di import-export con i paesi socialisti in cui era riuscito a procurarsi un piccolo lavoro. «Mi davano – ricorda – 40 mila lire al mese, senza libretti e senza contratto. Mi licenziarono in tronco con due mesi di buona uscita. Quelle 80 mila lire furono la mia liquidazione per ventiquattro anni di attività come rivoluzionario di professione».

Negli anni successivi, Bonelli è riuscito a ricostruirsi una vita abbandonando lentamente il suo sogno rivoluzionario. Ma, alle due stagioni fondamentali della sua vita, quella ciociara e quella jugoslava, ha continuato a dedicare pensieri ed opere, cercando di documentarne caparbiamente l’esistenza. Il destino di Bonelli è, infatti, singolarmente contrassegnato da una doppia negazione. In Ciociaria il suo passaggio rimane legato solo alla testimonianza di quel suo pseudonimo che, per anni, ha sembrato allontanare ogni possibilità di identificazione: e che è diventato, per alcuni provvidenzialmente, lo schermo dietro cui nascondere un peso forse troppo rilevante per una piccola storia. In caso diverso, troppe ammissioni si sarebbero dovute rischiare. I comunisti, innanzitutto, avrebbero dovuto riconoscere nell’iniziativa dell’ «irregolare» Bonelli la prima causa della loro riorganizzazione provinciale, una sorta di peccato d’origine, una smentita clamorosa della regola secondo la quale nulla che si faccia fuori dal partito può produrre un bene per il partito. Ma anche i cattolici avrebbero dovuto ritagliare un posto di rilievo nella rievocazione della loro resistenza a un altro, un estraneo, costretto poi, forse in virtù di qualche ben dissimulata preoccupazione diplomatica, ad abbandonare la zona di gran carriera. Deve esserci un motivo serio per cui Gino Conti e Alfredo Bonelli si sono ricongiunti nell’unica persona che sono stati solo dopo mezzo secolo: nel silenzio dei protagonisti, l’unica strada per avvicinarsi a capirlo non resta che quella, percorsa in queste pagine, di raccontare chi era allora e chi è stato in seguito Alfredo Bonelli. La negazione si ripete per il riconoscimento dell ‘attività cominformista a Fiume. E in questo caso Bonelli sparisce in nome delle convenienze della grande storia, viene ricacciato nell’equivoco di un giocatore che potrà vedere ammesso il valore della posta che getta nel gioco solo se uscirà vincitore da una partita che vincerà per tutti o perderà da solo. Quando tutto è passato, quando a Bonelli, per primo, della partita non importerà più nulla, un’unica verità finirà col contare, quella d’esserci stato. Ed è la verità che il rivoluzionario di professione Alfredo Bonelli, alias Gino Conti, alias Stanko, cerca da più di quaranta anni, solitario, di ricordare.

TARCISIO TARQUINI

(introduzione al libro di Alfredo Bonelli “Io Gino Conti rivoluzionario di professione. Memoria sulla Resistenza in Ciociaria“, Tofani Editore,\1995). Il libro si trova in molte biblioteche italiane e in quella di Alatri.)

 

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Una risposta a "“Quel Gino Conti sono io”"

  1. Uno specchio che ben rende il clima e le vice de storiche interne di un partito clandestino. Mi ha riportato alla mente la vicenda di Boscagli, esule e combattente nella guerra di Spagna, comandante partigiano e poi sindaco di Sinalunga, infine messo in disparte dal partito, con incarichi marginali e al limite della sussistenza e tornato a fare il muratore come durante la permanenza in Francia esule.

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