Nel novembre del 1971 si concludeva, con un accordo sindacale, l’occupazione della Pantanella, un’antica fabbrica di pasta di Roma. Sembrava una vittoria, ma fu una sconfitta di cui, un attimo prima degli altri, si accorse uno dei responsabili dell’azienda che, alcuni giorni dopo la firma dell’intesa, si suicidò lanciandosi dalla terrazza più alta dello stabilimento di Porta Maggiore, i cui muri di cinta, con gli striscioni che promettevano resistenza a oltranza, erano stati per mesi il diario della lotta a uso dei pendolari bloccati sui treni nelle lunghe soste prima di entrare nella stazione Termini. Lo raccontai per “Nuovi Argomenti” nel numero aprile-giugno del 2000 quando al posto della fabbrica, dopo anni di abbandono, stava nascendo un’area commerciale e di uffici.

La poesia di Landolfi nella lettura di Pietro Tripodo. “L’ultimo deserto possibile del nostro vivere”
Questo saggio sul Tommaso Landolfi poeta, fu scritto e letto da Pietro Tripodo per un convegno, che si tenne a Frosinone nel dicembre del 1987, intitolato “Landolfi libro per libro”. I due volumi di poesia dello scrittore di Pico – “Viola di morte” e “Il tradimento” – furono assegnati alla lettura critica di Pietro e il risultato fu straordinario. Ripropongo il saggio che, come succede spesso quando la moneta è troppo buona, ebbe scarsa circolazione. Lo ospito per esigenze “editoriali” in questo mio blog, ma spero trovi presto una sede più adeguata e con pubblico più vasto. Continua a leggere

Primo maggio. I confetti di Santa Croce di Magliano
I colori lividi e vividi del ritratto a olio di Nicola Crapsi catturano l’attenzione del visitatore che varca la soglia della piccola sala riunioni della Camera del lavoro di Santa Croce di Magliano, il paese del Basso Molise — a una quarantina di chilometri appena da Foggia — che è una delle piccole capitali del sindacato italiano. L’orizzonte è segnato dal profilo lungo del Tavoliere delle Puglie, ricco dell’acqua che la diga di Occhito devia dal fiume Fortore e incanala lontano dai piccoli centri molisani, a cui sarebbe naturalmente destinata, lasciandoli aridi nell’estate che la ventosità collinare non basta a rendere meno violenta. Il ritratto, opera massima probabilmente di un pittore locale, è una specie di frutto sincretico di immagini archetipe diverse. O, più banalmente, è un miscuglio di tratti che ricorda molto da vicino quegli identikit composti con tessere diverse che stentano a riconciliarsi in una sagoma, o in un volto, attendibili. Nella combinazione degli elementi si riconoscono le due grandi matrici iconografiche che il pittore portava nella mente. Quella di Lenin che arringa la folla, in uno dei comizi più celebrati della rivoluzione, e l’altra, più familiare, di Giuseppe Di Vittorio, con la mandibola tesa e nella postura diritta da cafone che sfida, con testarda e altera mitezza, gli agrari suoi padroni. Nicola Crapsi non era però un contadino povero. Era un operaio elettricista che si convertì ancora bambino al socialismo e tra il 1921 e il 1922, coppia di anni fatali della storia d’Italia, diventò poco più che ventenne sindaco del paese prima d’essere deposto dalla vittoria del regime fascista. Il suo nome figura al quarantaduesimo posto nell’albo affisso nell’angusto atrio del palazzo municipale, subito dopo il quarantunesimo Domenicantonio Guglielmo, e un quarantunesimo bis, Pasqualino Colombo, sfuggito alla prima elencazione e recuperato in calce con un asterisco per non rimettere mano alla numerazione della graduatoria. Il quadro che lo immortala mentre parla, con le dita forti su cui stinge il grigio del doppio petto aggrappate a quella che deve essere la balaustra di un balcone o di un palco, addossato sulle sinuosità di una bandiera gonfiata lievemente dal vento, è oggetto di un culto particolare.

Il mio amico Gianni Astrei
Oggi, 27 aprile alle 18,30, una messa a Santa Maria Maggiore ricorderà, con qualche giorno di anticipo, il decimo anniversario della morte del mio amico Gianni Astrei avvenuta nel pomeriggio del Primo maggio del 2009. Alcuni mesi dopo quello stupido incidente di montagna che lo portò via, il figlio Angelo mi chiese di scrivere un ricordo del padre per un libro che avrebbe dovuto raccogliere le testimonianze degli amici e di chi lo aveva frequentato e conosciuto più da vicino. La pubblicazione alla fine non si riuscì a fare, ma io inviai lo stesso la mia parte ad Angelo che l’ha depositata e conservata, come me, in una cartella del suo computer. È il mio inedito racconto di Gianni e della nostra amicizia che, d’accordo con Angelo, pubblico adesso sul mio blog per conservare una memoria, per esprimere un omaggio che non voglio – non vogliamo – resti privato. Continua a leggere

Un Conservatorio all’ Aquila, un violino a Onna
Dieci anni fa il terremoto dell’Aquila, pochi mesi prima avevo visitato il suo Conservatorio dove tornai per raccontarne la distruzione ma anche la speranza che stava rinascendo. E’ così che scoprii il geniale progetto di ricostruzione firmato da un maestro dell’architettura dell’emergenza il giapponese Shigeru Ban, il conservatorio temporaneo che in parte ne aveva raccolto le indicazioni, spegnendone però le soluzioni più ardite, lo strenuo lavoro che aveva restituito ai giovani musicisti una sede di studio in pochi mesi, in attesa del recupero di quella storica, collocata al fianco della basilica di Collemaggio. A Onna, un paese completamente distrutto a pochi chilometri dal capoluogo, un violinista, docente del Conservatorio di Frosinone di cui all’epoca ero presidente, era riuscito a salvare il suo strumento e lo aveva trasformato nel simbolo della rinascita attraverso la musica. Raccontai tutto in un capitolo del mio libro “Conservatorio. Ieri Oggi Domani” che ripropongo come contributo al ricordo di una tragedia che non ha trovato ancora la sua pacificazione.
«Ero stato a Collemaggio, a visitare il conservatorio Alfredo Casella dell’Aquila che occupava allora un’ampia porzione dell’antica struttura conventuale, posta al fianco della chiesa dedicata a Celestino V, al principio dell’estate del 2008, meno di un anno prima del terremoto che in pochi attimi avrebbe distrutto il centro storico della città abruzzese e fatto crollare una parte della copertura medievale dell’edificio, appena fuori dalle mura dell’abitato, meta di una devozione tenace alla memoria del papa che, nonostante la condanna dantesca, la gente più umile, forse per antica diffidenza verso i vincitori della storia e il potere, continua a conservare intatta generazione dopo generazione.

Se i poveri sono colpevoli
Sessanta anni fa un’indagine spiegava che la povertà del meridione nasceva dal “familismo amorale”. Un modo per dire che i poveri non sono esenti da colpe. In occasione dei quaranta anni della ricerca, realizzata da E.C. Banfield, da cui nacque un libro celebre “Le basi morali di una società arretrata” andai a visitare il paese lucano oggetto dello studio del sociologo americano e ne scrissi per il mio giornale “Rassegna Sindacale” e “Diario”, con cui saltuariamente collaboravo. Ma ne presi anche spunto per un saggio uscito su “Nuovi Argomenti” nel marzo del 2000. mentre si discuteva di riforma dell’assistenza e aveva appena preso avvio la sperimentazione del “reddito minimo di inserimento”. Mi è tornato in mente in questi giorni d’esordio del “reddito di cittadinanza”, soprattutto avendo preso parte ad alcune presentazioni di questa “misura”, nel corso delle quali i promotori mi sono sembrati un po’ troppo preoccupati di spiegare le sanzioni e le punizioni previste contro i ”furbi”, riecheggiando l’atavica diffidenza contro i poveri tanto nota in letteratura. Nel saggio guardavo lo “strumento” individuato per “certificare” la povertà, il “riccometro”, alla luce di questo atteggiamento culturale e politico. Ripropongo lo scritto senza cambiamenti, non credo lo abbiano letto in molti (nonostante la prestigiosa sede di pubblicazione – la rivista fondata da Pasolini e Moravia) e mi fa piacere segnalarlo, ritenendo perfino che qualcuna delle osservazioni in esso contenuta possa risultare utile anche nel dibattito di oggi.

Musicisti sull’oceano: “Samotì” e i suoi compagni
Alla fine, la storia è sparita dalle pagine dei giornali ma nei giorni immediatamente successivi all’affondamento della nave da crociera squarciatasi sugli scogli del Giglio, a quanto pare per una sbruffonata del comandante, ha trovato un suo piccolo posto nelle cronache la notizia del giovane batterista del complesso ingaggiato per intrattenere i passeggeri nelle lunghe serate di bordo che, arrivato alla scialuppa che l’avrebbe messo in salvo, ne è ridisceso per lasciare il posto a un bambino impaurito, inabissandosi così nella lista delle persone disperse nel naufragio sul cui destino non resta ormai sospesa neppure la più flebile speranza. Giuseppe Girolamo era diplomato in conservatorio e, seguendo lo stesso percorso di tanti come lui, aveva trovato uno dei suoi primi lavori da professionista della musica imbarcandosi con l’equipaggio della Concordia di Costa crociere, diventandone lui stesso – come vogliono la prassi e il diritto marittimo – un componente a tutti gli effetti, sottoposto alla stessa disciplina e ai medesimi obblighi. Continua a leggere

L’inchiesta di Caracas, i sette emigrati di una storia dimenticata
La vicenda del grande rientro degli italo – venezuelani scacciati dal loro paese di emigrazione dalla crisi che lo ha sprofondato nella miseria – di cui ho scritto in un post precedente – mi ha fatto scoprire un libro che varrebbe la pena di ripubblicare perché racconta una storia pressoché sconosciuta, e che mai ho visto citata nei numerosi articoli che pure la stampa italiana ha dedicato al problema. Me l’ha fatta scoprire un altro libro, “Italiani mata burros” di Michele Castelli che ne fa la trama di uno dei suoi racconti. È la storia di sette siciliani, emigrati in Venezuela negli anni cinquanta, catturati dalla polizia del dittatore Marco Perez Jimenez, i quali tenuti segregati e seviziati nelle carceri del regime per quasi tre anni (dal 13 aprile 1955, giorno dell’ “arresto” del primo dei sette, al 23 gennaio del 1958), vennero eliminati, proprio nelle stesse ore in cui un pronunciamento di militari “liberali” incendiava il Venezuela e costringeva lo screditato e corrotto tiranno alla fuga.

Dalle Ande agli Appennini, il grande ritorno dei venezuelani
Se non è ancora una diaspora, poco ci manca. Da qualche anno e ogni giorno di più è in atto il silenzioso ritorno in Italia dei nostri emigrati in Venezuela, dei loro figli e nipoti: intere famiglie che fuggono dalla grande crisi di questo grande e contraddittorio paese sudamericano, sospeso tra i proclami rivoluzionari di Maduro e del suo partito con la promessa di una società più giusta e una realtà che, nel racconto dei nostri connazionali che sono fuggiti, è un incubo di miseria e corruzione. Un delirio che minuto dopo minuto distrugge ogni speranza, martellando nella mente il chiodo di un solo pensiero fisso conficcatosi in un’ossessione, quella di riavvolgere il nastro delle proprie biografie personali o familiari e di tornare all’origine, al punto di partenza, con la certezza che, comunque vada, si approderà in un posto migliore di quello che si lascia. Il caso è giunto sulle pagine dei giornali e nelle cronache dei notiziari, spesso deformato dalla lente dell’ormai decennale polemica sullo “chavismo” e la sua eredità di oggi: se sia stato un bene diventato un male o se invece da noi sia arrivato da sempre il riflesso di un’allucinazione che ciascuno ha colorato con i suoi sogni, custoditi, come troppo spesso avviene, sulla pelle degli altri e a dispetto della verità, delle dure evidenze della vita da svegli. Non di questo, però, voglio parlare, ma di quanto ho visto e sentito in un piccolo angolo del Molise, la cui laboriosità sociale continua a sorprendermi ancora dopo anni di viaggi, incontri e racconti. Continua a leggere

Una Caritas e la sua Scuola. I “piccoli miracoli” di Don Alberto
Nel 1992, nei giorni successivi all’assassinio di Paolo Borsellino, nella più piccola diocesi d’Italia, la Caritas fonda una Scuola di formazione all’impegno sociale e politico dedicandola alla sua memoria. Venticinque anni dopo, un libro intervista – che ho avuto l’onore di curare – racconta, dando la parola al suo ideatore, don Alberto Conti responsabile della Caritas di Trivento, la straordinaria vicenda di questa istituzione che ha ha richiamato, come docenti, personalità eminenti del mondo cattolico e laico del nostro paese. Battaglie sociali, civili, politiche che nascono tutte da un profondo impegno religioso, perché la ragione, e la spiegazione di tutto, è già scritta nelle Sacre Scritture. Il libro si intitola “Come in cielo così in terra”, è stato presentato a Capracotta da don Luigi Ciotti, il 9 agosto. Quelle che seguono sono le pagine iniziali.